La felicità non si insegna

La cosa che conta di più non è semplicemente analizzare la realtà, ma saper prendere decisioni di fronte a essa. Così le nuove generazioni sembrano affette dall’incapacità di poter decidere di compiere il gesto grande della libertà che sceglie il bene, o comunque che sceglie qualcosa per la propria vita. Decidere sembra un verbo bandito dalle nostre educazioni. Questo, però, è soltanto un sintomo di un problema molto più profondo. Il vero tema non è, infatti, saper decidere, ma è la nostra relazione con la libertà. Ecco perché dovremmo domandarci primariamente: che cos’è la libertà?

 

Quando pensiamo alla libertà, la immaginiamo sempre innanzitutto come qualcosa che ha a che fare con il nostro possibile. Libero è chi può fare ciò che vuole. Volere e potere sono i due verbi decisivi. Ma la libertà è semplicemente fare ciò che si vuole? È potere ciò che si vuole? Non fare ciò che si vuole, ma fare ciò che si è. Ecco perché la libertà è sempre vissuta come un atto drammatico, proprio perché non è innanzitutto in relazione alla nostra volontà e alla nostra possibilità, ma è radicalmente in relazione al nostro essere. Domandarci se siamo liberi, significa chiederci innanzitutto chi siamo. Siamo convinti, per la gran parte del tempo, di essere quello che gli altri raccontano di noi, quello che gli altri narrano della nostra vita, quello che gli altri ci rimandano su noi stessi. Il giudizio dell’altro non esaurisce la domanda sulla nostra identità. Come siamo visti non è la stessa cosa di chi siamo veramente. Allo stesso tempo, corriamo il rischio, invece, di identificarci con i nostri doveri, con quello che facciamo, con la tecnica della vita. Ci insegnano giustamente fin da piccoli a stare dentro le regole, a stare dentro un limite; ma quasi mai veniamo educati ad ascoltare quel limite, a lasciare che quel limite possa suscitare dentro di noi qualcosa di più alto del semplice argine contro cui andare a sbattere. Tant’è vero che arriva un momento in cui non sopportiamo più le regole, i limiti, perché li avvertiamo oppressivi. Scontrarsi con un limite, infatti, non significa semplicemente urtare contro qualcosa che mi ferma, che mi ostacola. Ma significa venire a contatto con qualcosa che mi costringe a fare i conti con me stesso. La regola è messa lì non per dirmi chi sono, ma perché mi costringe a scoprire chi sono, mettendo, in atto una serie di conflitti che svelano me a me stesso. Può ammalarsi la vita, quando si lascia costringere nel solo recinto del dovere, della regola, del giudizio altrui. Quanto può diventare infelice la vita di chi affida ad altri la pronuncia del proprio nome e consegna alla tecnica della vita che ha imparato il pronunciamento più significativo sulla sua identità. La felicità è possibile solo se sprigionata da una decisione. «Un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”». La posizione di un mendicante, di un uomo che prega, di colui che si mette in ginocchio e chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?», che potremmo tradurre con una frase ancora più sintetica: che cosa posso fare per essere felice? Gesù non è trattato qui come il figlio di Dio, come il Signore, come il vero significato dell’esistenza, come colui che davvero può renderci felici, ma è trattato come un maestro, certamente credibile, autorevole. Come chi può insegnare una tecnica, qualcosa di importante, di affascinante, una dottrina convincente, una filosofia seducente, un’etica forte. Ma l’attributo di bontà si può dare solo a Dio, non a qualsiasi maestro. Ecco perché Gesù pare correggere il tiro. Finché quel giovane lo considererà un semplice maestro, non dovrà confondere ciò che si aspetta con ciò che Gesù effettivamente può dargli. Non è il dovere, che non è semplicemente l’esecuzione di un comandamento a renderci felici, però è importante ricordarci che il dovere è la base su cui si può costruire una felicità futura: il fare ciò che è giusto, il fare ciò che dobbiamo, il fare ciò che possiamo è la base che rende possibile un’eventuale felicità. Certamente non basta per essere felici, ma bisogna essere disposti a farlo per poter desiderare almeno di essere felici. Gesù sta ricordando a questo ragazzo che deve fare anche lui la sua parte, che anche lui deve mostrare, con ciò che è consono alle sue capacità, di saper scegliere ciò che ha riconosciuto come buono, come significativo, come qualcosa che può dare gusto alla sua vita. Ed è qui che tutta la discussione si capovolge, perché il ragazzo sbaraglia l’andamento logico della discussione. Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!". Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni (Mc 10.20-22).

 

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