Le relazioni tra Gesù e le donne nella tradizione evangelica sono caratterizzate da autenticità, rispetto, promozione, misericordia. Le donne sono incontrate, liberate, esaudite, guarite, riportate alla vita, inviate e responsabilizzate. Gesù, seguito, ascoltato, servito, unto, è anche interrogato e trasformato dalle figure femminili che incontra.
La portata innovatrice e liberatrice dell’atteggiamento di Gesù verso di loro non trova eguali né nel giudaismo coevo né nel cristianesimo primitivo (e successivo). La qualità di una relazione dipende da molti tratti, non ultime la libertà con la quale in essa interagiscono le persone coinvolte e l’autenticità che le persone possono esprimervi. Preziosa è anche la capacità di incidere sul percorso di autonomia e responsabilità personale, incoraggiando crescita e consapevolezza. Per noi lettori del XXI secolo tutti gli episodi evangelici in cui Gesù parla con una donna sono assolutamente normali ed equiparabili a tanti altri. Ma alcune spie testuali ci dicono che non doveva essere così al suo tempo. Se leggiamo, ad esempio, Gv 4, notiamo che la stessa donna samaritana si sorprende del fatto che Gesù le rivolga la parola (4,9: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»), e questo viene spiegato dal narratore con l’inimicizia tra giudei e samaritani; ma addirittura i discepoli, sopraggiunti dopo essere andati a fare compere, «si meravigliavano che parlasse con una donna» (4,27), «[…] gesto che ai rabbì non era consigliato, soprattutto se prolungato, e che poteva esporli al pettegolezzo (vf. Mishnah Avot 1,5)». Ci sono donne in abbondanza tra i beneficiari di guarigioni ed esorcismi di Gesù: che qualcuno interceda per loro (come per la suocera di Pietro o per la figlia di Giairo) o che loro intercedano per altri (come la sirofenicia o la vedova di Nain) o che esse stesse cerchino un approccio con Gesù per essere salvate (come l’emorossia), i racconti di miracolo testimoniano non solo come la tenerezza di Dio in Gesù si rivolga a queste figure come alle altre di diseredati e oppressi che affollano le strade della Galilea, ma anche che Gesù non teme in alcun modo la contaminazione derivante dal contatto fisico con un malato, meravigliosamente esemplificato da quel “prendere per mano” che accomuna la guarigione di una vecchia (Mc 1,31) e la rianimazione di una giovanissima fanciulla (Mc 5,41). Le donne, nei Vangeli, sono destinatarie di insegnamenti di Gesù, ossia che Gesù spezza la parola per loro. Rabbi Eliezer, uno dei più famosi rabbini del I secolo, dichiarava: «Chi insegna la Torah a sua figlia, le insegna il libertinaggio». E il Talmud recita ancora: «Meglio bruciare la Torah, che trasmetterla alle donne» (Sota III,4). E, come i bambini e gli schiavi, le donne non avevano l’obbligo di recitare lo shemà o le preghiere prima e dopo i pasti. Si capisce allora perché il pio ebreo ringraziasse ogni giorno l’Eterno per non averlo creato pagano, donna e ignorante”. Paradossalmente, benché la Scrittura contenga le storie di parecchie eroine d’Israele e ne esalti il ruolo nella storia della salvezza, le donne non avevano il diritto di studiarla né di inserirvisi da protagoniste, data la prevalente interpretazione maschilista. [P. VANZAN, «La donna nella chiesa: indicazioni bibliche e interpretazioni femministe», in «La civiltà cattolica» 3257 (1986) 431-444.] Invece le donne sono destinatarie dell’insegnamento di Gesù, come testimonia la bella pericope di Lc 10,38-42, nella quale il personaggio di Maria fa qualcosa di assolutamente inaudito per i suoi tempi, ossia si siede ai piedi di Gesù e ne ascolta le parole e gli insegnamenti, mentre le convenzioni sociali, ben rappresentate dalla sorella Marta, le avrebbero imposto un indaffarato e invisibile servizio domestico. Gesù apprezza pubblicamente Maria e la grande libertà interiore con la quale è andata oltre le convenzioni e i ruoli del suo tempo, scegliendo «la parte migliore, che non le sarà tolta» (10,42). I Vangeli ci dicono che un gruppetto di donne seguiva stabilmente Gesù, Marco lo ricorda in 15, 40-41, ai piedi della croce, quando ormai tutti i discepoli maschi sono fuggiti: «Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.» Che razza di gente e di maestro, dunque, fossero questi pazzi della Galilea, i quali accoglievano stabilmente al loro interno donne che avevano evidentemente lasciato le proprie famiglie (alcune anche di rango sociale elevato) per una vita errabonda e moralmente discutibile, i contemporanei di Gesù dovettero chiederselo spesso. Le donne dimostrano, quindi, di essere pienamente capaci di un servizio ministeriale, che va ben oltre i confini domestici e le necessità familiari. Quindi, questo servizio riservato alle donne acquista un significato teologico e cristologico preziosissimo. Ai tempi di Gesù una donna non poteva testimoniare in un processo: la sua parola non aveva valore alcuno in ambito giuridico. Eppure Gesù affida a un gruppetto di donne il messaggio più importante, ossia l’annuncio della risurrezione. Gli Undici e gli altri, udito l’annuncio delle donne, non credettero loro perché le loro parole sembravano vaneggiamenti (cf. Lc 24,10-11). Il diritto matrimoniale è senz’altro l’ambito nel quale più nettamente Gesù opera una vera e propria equiparazione dei diritti tra partner a fronte di una sperequazione ingiusta e maschilista tra un possessore e un oggetto di possesso. E’ Matteo il vangelo con i passaggi più illuminanti a riguardo. Già in 5,27-30, richiamando il sesto e il nono comandamento che riguardano il rapporto tra uomo e donna, Gesù “libera” quest’ultima dai condizionamenti sociologici e giuridici che ne umiliano la dignità.
di Don Salvatore Rinaldi
articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 25 Aprile 2016
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