Papa Francesco, quando si trovava in Argentina parlava della cultura del «volquete», cioè del camion della spazzatura. Diventiamo noi stessi uno «scarto», le cose più interessanti della vita diventano uno «scarto»: l’arte, forse anche i figli, e ovviamente tutte le persone e le occasioni che non sono conformi ai dettami della pubblicità diventano uno «scarto».
Senza che ce ne rendiamo conto le cose importanti (amici, cultura, senso religioso) diventano uno scarto, perché i nostri giudizi non sono più i nostri, ma dettati da interessi che ci passano sopra la testa. La cultura dello «scarto» è una malattia sociale. La cultura dello «scarto» è la malattia vera, il resto sono sintomi. Il primo e unico esame che merita passare è quello dello specchio ogni mattina. Guardarsi allo specchio e accettarsi significa avere in qualche modo fatto i conti con i propri limiti e con le proprie aspirazioni. Già, ma oggi invece superare l’esame dello specchio significa tutt’altro: la pubblicità invita a cercare quelle che chiama imperfezioni per poi farci comprare qualcosa che le riparerebbe. Per il nostro bene (sic!) la pubblicità è in grado di farci notare un’innumerevole sfilza di impurità, eccessi, superfluità, alterazioni. Di fronte a una dittatura globale così pervasiva da diventare auto-dittatoriale (cioè siamo schiavi di noi stessi!), che sparge una cultura fragile al punto di farsi irretire dalla prima pubblicità e debole al punto di desiderare di primeggiare nella lunghezza dell’auto che si possiede, cosa può fare un singolo, o un gruppo o un popolo? Anche perché in questa corsa a chi è più fragile, c’è chi apparentemente ci guadagna (perlomeno ci guadagna in quattrini) e non ha alcuna intenzione di avviare un cambio di direzione. In un mondo in cui il potere si esercita attraverso la seduzione del consumo, l’appello alla libertà può diventare la porta aperta a una schiavitù volontaria e il nostro desiderio confiscato nell’interesse di quello dei mercanti. Siamo in una dittatura, anche se mascherata, dal volto molto umano che ti offre mille ritrovati ultramoderni, che ti fa credere che siamo al top, che il nostro sistema di vita è il migliore, il più democratico, il più «buono», ma resta una dittatura. Nella Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (nn. 53-54): “Così come il comandamento «non uccidere» pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire «no a un’economia dell’esclusione e della inequità». Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Abbiamo dato inizio alla cultura dello «scarto» che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono «sfruttati» ma rifiuti, «avanzi». Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo”. Il problema non è proporre un sistema politico, perché il cambiamento non viene da fuori, né di creare dei dissidenti professionisti, perché «l’uomo prende coscienza di essere un dissidente quando lo è già da un pezzo. Si tratta nel sapersi guardare allo specchio la mattina e decidere di vivere nella verità. Ma siccome fare questo da solo è utopia pura, si deve cercare degli alleati. Ma guardandosi intorno (tra delusioni, tradimenti, fregature varie) ci si rende conto di un fatto strano: gli alleati ci sono. Gente che ha iniziato a vivere in modo diverso c’è: siamo noi a essere cambiati e ora possiamo vederli. C’è il medico che rifiuta di fare il dispensatore di ricette, c’è il volontario che la mattina va al mercato e scarica le cassette di frutta per i poveri, ci sono gruppi, associazioni, centri di dissenso insomma. C’è chi punta sul rispetto della natura, chi su quello della vita nascente, l’insegnante che pensa che la scuola non sia un’azienda o quello che crede che l’università non sia un esamificio. C’è chi rifiuta il «griffato», chi va in giro in bicicletta. E ci sono associazioni di consumatori, di disabili, di bioetica, di ecologisti, di donne. Insomma, si possono dare delle regole, si può attutire lo spreco pubblico, si possono mettere tetti agli stipendi, si può censurare la pubblicità «onnivora», ma il primo passo è personale: il mondo non cambierà, ma possiamo (e dobbiamo) cambiare noi; per essere meno sfruttati, meno manipolati e più soddisfatti. E in questo troviamo inaspettati compagni di cammino. Ci si domanda se il futuro luminoso è sempre e soltanto la faccenda di un lontano là. Non è invece qualcosa che è qui da un pezzo e che soltanto la nostra miopia e la nostra fragilità ci impediscono di vedere e sviluppare intorno a noi e dentro di noi?».
di Don Salvatore Rinaldi
articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 6 Giugno 2016
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