Nel "già" il prolungamento

Anche nella nostra realtà contemporanea è possibile essere mistici. Noi non abbiamo bisogno di recarci in dei luoghi particolari e di portarci dietro l’aria di quel luogo oppure delle immaginette (i cosiddetti santini) raffiguranti alcuni personaggi.

Noi abbiamo bisogno, invece, di riscoprire il senso del nostro Battesimo, poiché è il Battesimo che ci fornisce la possibilità di essere costruttori della nuova umanità. Ma attenzione a non tentare di essere l’imitazione di Cristo. Nessuno di noi può esserlo, possiamo essere però il prolungamento delle sue braccia. E non bisogna attendere la morte per vedere “qualcosa di bello” (cfr. Mt 17,4 ; Mc 9, 5 ; Lc 15,22). La Parola di Dio ci dà la possibilità di vedere hic et nunc la vita in modo diverso. È già da oggi che il nostro corpo può essere trasfigurato. In questa prospettiva rinnovata la nuova umanità è, dunque, avere la certezza di vivere già da oggi ciò che saremo per sempre. Dovremmo prendere maggiore coscienza del nostro essere collaboratori di un paradiso che ci è stato messo tra le mani. Dovremmo giungere a “camminare scalzi” nel senso di avvertire la bellezza e l’energia che sprigiona questo creato che ci è stato gratuitamente donato. La nostra vita ha un senso e noi siamo stati chiamati a viverla in pienezza. Noi non siamo stati scaraventati in una realtà ma, dall’atto di amore avvenuto tra mia madre e mio padre, Dio è effettivamente entrato nella nostra vita. Dio ci ha stigmatizzati nel dirci: «Tu sei mio figlio e sei per sempre» (cfr. Sal 2,7 ; Lc 3,22). E questo Dio che ci ha stigmatizzati non solo ci ha affidato la custodia del creato, ma ci ha persino detto: «Da oggi tu continuerai la creazione» (Gen 1,22). Se però la nostra vita non è piena di passione per l’umanità, non può essere vita vera e vita piena. Se non c’è passione non c’è vita. Noi non dobbiamo limitarci a vivere la vita, ma dobbiamo coinvolgere l’altro a godere con noi. Ecco l’esempio di coloro che non a caso definiamo santi. Francesco d’Assisi aveva passione per l’umanità, la amava talmente tanto che i segni della passione sul suo corpo si sono manifestati anche in modo visibile. Le stigmate ci portano a stare continuamente nella Casa del Padre, ad essere già da oggi prolungamento delle braccia di Cristo, senza attendere la morte per vivere il nostro per sempre. La scelta di crearsi una famiglia ha dei punti in comune con la scelta di fraternità di Francesco d’Assisi: entrambe sono scelte di amore per l’umanità. È nella famiglia come nella fraternità che si vive la passione, ciascuno con le proprie stigmate. Nella misura in cui noi avremo la forza di dire a un nostro fratello “ti ringrazio” oppure “mi perdoni” noi avremo sul nostro corpo le stigmate della vita vera. Ma se vogliamo davvero trovare il senso della  vita, presto ci ritroveremo a lottare con chi la pensa in modo diverso da noi, come del resto ci testimoniano appunto le vite dei santi che ci hanno preceduto. Qualcuno potrebbe obiettare che in Francesco d’Assisi le stigmate erano anche fisiche. Ebbene il Signore non gliele ha concesse per se stesso, ma per confermare a quei fraticelli che ciò che lui proponeva era la vera volontà di Dio, per confermare loro che è possibile vivere il Vangelo fino in fondo. Noi però non siamo disposti a soffrire, ancora non abbiamo compreso che nella nostra vita la sofferenza è come il letame: puzza su di noi, ma se ce ne impregniamo il Signore la trasformerà in fertilizzante. Ruolo centrale nel nostro cammino di “misticizzazione” è rivestito dalla preghiera. La preghiera è il desiderio di avvertire la presenza di Dio. Lungi da quei predicatori che ci presentano Dio come un padre umano che ci ha creati e che vuole da noi qualcosa in cambio. Noi a Dio non aggiungiamo né togliamo nulla. Papa Benedetto XVI, nella memorabile Udienza Generale del 30 gennaio 2013, parlando proprio di Dio come Padre afferma: «Non è sempre facile oggi parlare di paternità. Soprattutto nel mondo occidentale, le famiglie disgregate, gli impegni di lavoro sempre più assorbenti, le preoccupazioni e spesso la fatica di far quadrare i bilanci familiari, l’invasione distraente dei mass media all’interno del vivere quotidiano sono alcuni tra i molti fattori che possono impedire un sereno e costruttivo rapporto tra padri e figli. La comunicazione si fa a volte difficile, la fiducia viene meno e il rapporto con la figura paterna può diventare problematico; e problematico diventa così anche immaginare Dio come un padre, non avendo modelli adeguati di riferimento. Per chi ha fatto esperienza di un padre troppo autoritario ed inflessibile, o indifferente e poco affettuoso, o addirittura assente, non è facile pensare con serenità a Dio come Padre e abbandonarsi a Lui con fiducia». Se crediamo che la nostra vita vada vissuta con un’altra persona per sempre dobbiamo conoscere sempre meglio l’altro. Come in una relazione di coppia così la relazione con Dio deve essere sempre nuova. Non possiamo dire mai di conoscere tutto dell’altro. La relazione piena con Dio avviene nell’Eucarestia, momento in cui abbiamo la possibilità di far entrare il tempo di Dio nel nostro tempo. Intraprendere un’azione liturgica nasce da una necessità. Il motivo per cui ci si ferma e si celebra l’Eucarestia è reimmetterci nella presenza di Dio nella storia. Ciò presuppone la consapevolezza che Colui che ha progettato la nostra vita è il continuamente Presente. Può accadere però che ci siano giorni nei quali ci lasciamo trasportare da ciò che ci circonda e lasciamo che sia la sola logica umana a “prendere in mano” la nostra vita. Ma se tutti i giorni fossero così, su che cosa staremmo costruendo la nostra vita? Nel momento in cui scegliamo di partecipare alla Celebrazione Eucaristica noi ci spogliamo di quelli che sono solo desideri per raggiungere la nostra più autentica soddisfazione. Da quel momento, infatti, noi ci troviamo nell’aula liturgica per essere toccati dalla presenza e dalla corporeità di Colui che ci ha voluti nuove creature. A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi qual è il motivo per cui ognuno di noi dovrebbe voler essere una sola corporeità con Lui. Ebbene, se lo desideriamo è perché vogliamo essere il prolungamento di una logica diversa da quella che ci propongono gli altri. Se scegliamo di varcare la soglia di un’aula liturgica per partecipare a una Celebrazione Eucaristica è perché avvertiamo forte in noi il bisogno di essere trasfigurati. «Com’è bello Signore stare qui» (cfr. Mt 17,4 ; Mc 9, 5 ; Lc 15,22), perché vedo cose diverse, vedo il “già” nell’essere custode di una creazione che non finirà mai: questo è il pensiero che deve muoverci in un’azione liturgica. Infatti la massima bellezza consiste nella possibilità di essere trasfigurati sin da ora per poterci trovare già a godere di questa sintonia. Com’è bello già da oggi poter essere posseduti da Lui! La nostra più alta aspirazione dovrebbe essere che il corpo di Cristo sia per noi sigillo mistico, presenza storica. «Io in te, tu in me, tu oggi farai cose più grandi di me» (cfr. Gv 15,4-5). Questo è il mistico contemporaneo: colui che accetta che la nuova umanità entri in lui. Ecco, dunque, la testimonianza vera, quella che troppo spesso purtroppo manca a molti di noi. La testimonianza della fiducia che la nuova umanità è possibile già da oggi. Chi di noi – come ci ammonisce san Paolo – «porta sulla propria carne i segni della passione»? (cfr. Col 1,24). «Tu sei mio figlio, oggi io ti ho generato» (Sal 2,7). Facciamo sì che nel vivere la Celebrazione Eucaristica – se veramente reputiamo quel momento un momento di Dio – il pavimento dell’aula liturgica sia considerato da noi suolo sacro, in quanto siamo consapevoli che lì Dio scende in mezzo a noi, si rende presente e ci trasfigura. La nuova umanità è la fraternità, come aveva già intuito Francesco d’Assisi 800 anni fa. E allora al termine della Celebrazione Eucaristica dobbiamo “scendere dal Tabor”. Se ci siamo conformati alla logica di Dio e siamo stati stigmatizzati dobbiamo “scendere dal Tabor” e andare tra la gente per “sentire” la passione per l’umanità. E non dimentichiamo che il nostro vicino prima ha bisogno di avvertire che noi siamo persone guarite, e solo dopo ci sarà la possibilità che attraverso il nostro “farci strumento” possa essere appagato il suo desiderio di salvezza.

 

di Don Salvatore Rinaldi

 

articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 24 Ottobre 2016

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