Il nostro vivere nel mondo ci rende non solo custodi dell’altro, ma anche custodi del creato. Il creato è un giardino meraviglioso che ci è stato gratuitamente donato, se però lo tocchiamo non rispettando le leggi inscritte nella natura, lo deturpiamo.
Questo giardino può fornirci il necessario per vivere sia nell’oggi, sia ai figli che noi metteremo al mondo. Ma l’aspetto più grandioso è che questo giardino - ammesso che noi crediamo in cieli nuovi e terra nuova - sarà nostro per sempre. Se però non abbiamo conoscenza di questa verità, ognuno tenderà a crearsi una sua verità e si instaurerà una crescente confusione. Altra verità che sta a fondamento del nostro vivere nel mondo è la relazione con l’altro. Se non ci rendiamo conto dell’importanza che noi abbiamo per l’altro e che l’altro ha per noi, non riusciremo a vivere né per la nostra dignità e promozione, né per la dignità e promozione dell’altro. Più la mia conoscenza non è vera, più mi abituerò a “ergere statue ed altari”: non saprò più, cioè, distinguere quelle che sono solo idee da quelle che sono le realtà vere in grado di farmi vivere. E a questi idoli da me creati finirò io stesso perfino per portare ceri, affinché mi illuminino. Ma non potendo certo essere loro a darmi luce, sarò sempre io che accenderò quei ceri affinché illuminino me, creando così un’illusione pur di non restare deluso. Per fortuna oggi ci sono molti tra noi che sono stanchi di questa modalità di agire e che avvertono forte il bisogno di una lettura della realtà diversa, nuova, concreta. Queste persone si chiedono: “la nostra vita può avere una risposta?”. Chi si reca in un’aula liturgica lo fa perché è consapevole del suo bisogno di confronto con colui che lo ha sigillato nel dirgli: «Tu sei mio figlio, Tu sei a mia immagine e somiglianza» (cfr. Sal 2,7; Mc 1,11; Lc 3,22; Gn 1,26). E si reca appunto in un’aula liturgica perché sa di aver bisogno di conoscere quella Sapienza, che fa parte di un progetto, di cui lui è conseguenza, per essere custode del creato e continuatore della creazione. Nella seconda lettera a Timoteo, Paolo esorta una persona che ama tanto (Timoteo, appunto) e gli fornisce le dinamiche affinché la nuova umanità possa venir fuori. Le parole di Paolo sono per noi un richiamo all’essenzialità. Troppo spesso noi non siamo capaci di dire alle persone che amiamo: “basta, è giunto il momento di dare una svolta alla tua vita!”. Paolo, invece, dice a Timoteo: «Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l'hai appreso e che fin dall'infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia» (2 Tm 3,14-16). Se, dunque, acquisiamo la consapevolezza che non solo su di noi c’è un progetto, ma che questo progetto è presente in mezzo a noi - nel nostro hic et nunc – perché a questo punto dovremmo ostinarci ad accendere un lume davanti a un uomo solo perché magari c’ha proposto un’idea che ci appare migliore di un’altra? Gesù di Nazareth, l’Ecce Homo, invece esiste già. È lui la luce che illumina. Non devo crearmelo io. E proprio questa è la preghiera. Non una recita mnemonica. Preghiera è fare di ogni mio momento il tempo di Dio. “Non ho bisogno della preghiera”, come comunemente ed erroneamente la si intende, ma ho bisogno che ogni mio istante di vita entri nella lettura storica di Dio. La preghiera è un vivere costantemente aggrappati alla realtà del cielo, affinché i miei piedi non siano impregnati troppo in ciò che altri mi propongono, che potrebbe finire per diventare per me come sabbie mobili che risucchiano. La preghiera è, dunque, aggrapparsi a colui che è realmente presente e non lasciarsi risucchiare dalle sabbie mobili del relativismo e dell’indifferenza che altrimenti non ci lascerebbero vivere più.
di Don Salvatore Rinaldi
articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 31 Ottobre 2016
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