Speranza, una virtù non facile

La vera virtù della speranza cristiana non è né facile né spontanea. Non è un sentire passivo, un moto istintivo dell’anima, l’abbandono a una qualche forma indistinta di spontaneità vitale.

È una scelta controcorrente, contro la corrente oggettiva della cultura in cui viviamo e di cui viviamo, e contro la corrente soggettiva delle nostre tendenze istintive e della nostra spontaneità immediata. Perciò ha bisogno di una spinta dall’alto, di una grazia di speranza che ne fa una virtù infusa e soprannaturale. È quindi sostenuta dalla fede: è appunto la fede che ci fa vedere le cose che non si vedono, come affidabili e vere. Si può decidere di porre la speranza in Dio e nelle sue promesse, solo se lo si stente come persona viva. Se non siamo convinti di queste cose, inevitabilmente ci affideremo ad altre speranze, spereremo nelle cose di questo mondo, daremo la nostra fiducia ad altre persone o ad altre forze di salvezza. E agiremo di conseguenza, magari limitandoci a dire “io speriamo che me la cavo”. In ogni caso, ciò in cui si spera decide il come si vive. Decidendo cosa sperare decido come vivrò. La qualità della mia speranza diventa la qualità del mio vissuto, perché essa offre motivazioni fortissime, capaci di radicalizzare la mia dedizione al bene, più di ogni altra forma di speranza solo umana. «Noi – dice Paolo – ci affatichiamo e lottiamo perché speriamo nel Dio vivente» (1 Tm 4,10). Sperare comporta decisioni difficili, tagli dolorosi, rinunce: non perché si ami la rinuncia per la rinuncia, la sofferenza, ma perché si crede che questo è il prezzo da pagare per una felicità più grande. Si spera ciò che non si possiede ancora, o almeno ciò di cui non si può ancora godere: se già se ne potesse godere, non sarebbe più oggetto di speranza. Ma intanto, in questo futuro si investe il presente. In vista di una felicità più grande nel futuro sperato, si rinuncia a una felicità più piccola nel presente: come il risparmiatore che rinuncia a consumare oggi, per investire i suoi risparmi in un’attività produttiva e consumare di più e con più sicurezza domani. Sperare è investire il proprio presente nel futuro di Dio. Non posso avere tutto e il contrario di tutto: devo scegliere che cosa sperare, e rinunciare a tutto ciò che è incompatibile con questo, accettando volentieri le rinunce conseguenti: «Se speriamo ciò che non vediamo – dice ancora Paolo – lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,25). Esiste un particolare legame tra la speranza e quella dimensione del nostro impegno morale cui diamo il nome di conversione permanente. Noi continuiamo a sperare nonostante la persistente esperienza della nostra fragilità e del nostro peccato, le resistenze del nostro egoismo, le nostre infedeltà agli impegni presi. Perché alla fine non contiamo su di noi, ma – pur facendo del nostro meglio – contiamo sulla misericordia di Dio: speriamo che lui, che ha cominciato l’opera, la porti a buon fine. Non avrebbe nessun senso sperare di arrivare a possedere Dio, se dovessimo contare solo su di noi: la speranza cristiana spera Dio da Dio. Senza il suo aiuto e il suo perdono, la nostra speranza sarebbe presunzione. Ma ci possiamo contare: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli dice che non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31-32)

 

di Don Salvatore Rinaldi

 

Articolo pubblicato su “Primo Piano” di lunedì 27 Febbraio 2017

 

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