Siamo in grado ora di sapere quello che ci farà felici in futuro? Se non riusciamo ad avere ben chiaro quello che potrebbe farci felici, difficilmente potremmo costruire una vita soddisfacente. Che poi è quello che spesso accade.
Ogni giorno ognuno di noi prende un gran numero di decisioni, che ci mettono di fronte a situazioni più o meno piacevoli. Peccato che, nel giudicare e nello scegliere, siamo raramente razionali e ci lasciamo influenzare dal contesto sociale e culturale. Ricorriamo spesso a meccanismi cognitivi, chiamati euristiche (metodo di approccio), che sono comodi, automatici e poco dispendiosi, ma che spesso ci portano fuori strada. Spesso le nostre strutture cognitive non ci supportano come vorremmo. Seguendo euristiche ingannevoli, potremmo convincerci che un certo cambiamento possa avere conseguenze determinanti per la nostra vita. Ad esempio, qualcuno potrebbe pensare di spostarsi da una regione dell’interno degli Stati Uniti alla California, aspettandosi un aumento del benessere per via del clima californiano. Per diventare felici dobbiamo riaprire la cortina del cielo che gli uomini hanno chiuso. Dio rende l’uomo felice. Da solo l’uomo non può arrivarci. Quando la felicità è costruita su una relazione – sulle persone e non sulle cose – diviene fragile e può spezzarsi. Perché le relazioni sono molto sensibili alla temperatura! Si spaccano come gli steli dei fiori quando gela o tira un forte vento. Ed è proprio il caso di oggigiorno, consegnate come sono senza protezioni ai rigori di un inverno affettivo. La relazione si spezza e con essa la felicità. Per cui non si può più sperare una felicità duratura da una relazione, a meno che non racchiuda la possibilità del perdono. Il perdono è divenuto fratello gemello di quasi tutte le relazioni d’amore. Ora il perdono lo possono concedere solo le persone, non le cose. Dio è l’unico che può concedere il perdono, perché si trova presso di lui. Infatti ci saranno sempre delle rotture che nessun essere umano può accettare né perdonare. Ci sono relazioni talmente rovinate che nessun essere umano è in grado di percepirne la misura. Dio invece può farlo. Forse qui sta la sorgente più profonda della nostra infelicità: in una civiltà della prestazione a tutti i costi, non c’è posto per il perdono. Se vuoi restare in piedi, devi fare sempre di più e meglio: non è possibile abbassare la guardia. Rimettere i debiti e concedere assoluzioni va contro la spirale del successo. È di freno e rende pigri. In una cultura sovreccitata dal “fare”, solo Dio può portare quell’indispensabile bombola d’ossigeno che si chiama perdono. E anche lui ha avuto bisogno di secoli per far comprendere agli uomini il perdono. Tra il detto: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24) e la parola di Gesù: «Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5,39), tanta storia ha dovuto passare sotto i ponti. Si dice: «Non esiste libro che non abbia qualche capitolo noioso, non c’è esistenza senza mali, non c’è festa senza contrattempi, non c’è ricevimento senza bicchiere rotto». La felicità è relativa. Altri ancora vedono nella sofferenza ineliminabile uno sprone potente che spinge a operare con tanta maggiore ostinazione al progresso scientifico e alla messa a punto di tecniche sempre più audaci, nell’intento di venire a capo dell’ultimo resto di sofferenza. Per loro, la sofferenza è lo stimolo benefico che garantisce il progresso. Ci riusciremo certamente; basta che ci impegniamo insieme, con costanza e decisione. Ma resta un interrogativo. Riusciremo a vincere la sofferenza mediante la saggezza o il buon senso, affrontandola con filosofia o lavorando ancora di più? Esiste una “felicità che integri la sofferenza”? Una determinata specie di sofferenza si spiega molto bene. È legata all’impotenza umana e a ciò che c’è d’incompiuto nella creazione. Le malattie e le catastrofi naturali sono di questo tipo. L’uomo si libera progressivamente dal loro dominio. Altri mali li provochiamo a noi stessi. Non poche sofferenze sono prodotte nel mondo dalla nostra debolezza morale e dalla nostra cattiva volontà. Rimane un certo numero di mali inspiegabili. Per il cristiano, questa sofferenza è un mistero che deve entrare in un certo modo nel quadro della felicità ben compresa. Esiste una felicità che rimane interna, anche se pure interna resta la sofferenza. La croce di Gesù è più precisamente questo mistero. Essa ha il suo senso e la sua fecondità. Mostra qualcosa che non sapremmo senza Gesù: la sofferenza può inscriversi all’interno della felicità, quando essa è al servizio dell’amore. A causa della nostra debolezza e della nostra caduta, l’amore ha dovuto servirsi della sofferenza per mostrare quanto Dio ama gli uomini: per amore egli non ha risparmiato nemmeno il proprio Figlio. Al centro della vita c’è la morte. E la gloria della risurrezione risplende a partire dall’oscurità e dalla sofferenza del Venerdì Santo. Solo quando vedremo davvero che cosa è l’amore di Dio, capiremo che esiste una “felicità che integra la sofferenza”, una felicità che porta in seno la sofferenza per trasformarla in vita attraverso l’amore. Dice San Paolo: «Quello che manca ai patimenti di Cristo lo completo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). C’è una felicità che include la pena. Ma, per ottenere questo, la felicità deve essere liberata dal circolo vizioso dell’io chiuso e sufficiente. La vera felicità non sta tanto nell’“avere”, quanto nell’amore ricevuto e donato. Solo questa felicità è in grado di resistere alla sofferenza.
di Don Salvatore Rinaldi
Articolo pubblicato su “Primo Piano” di lunedì 20 Marzo 2017
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