L'Uomo vivente

«La gloria di Dio è l’uomo vivente» diceva Sant’Ireneo. La Chiesa di Cristo esiste per l’uomo, è il prolungamento nel tempo del mistero trinitario, perfetto in sé ma che attende che tutti ne siano parte nella gloria eterna. 

La passione di Dio è dunque l’uomo e la sua piena salvezza, vale a dire, la sua felicità vera, la sua piena realizzazione. Giovanni Paolo II, un grande annunciatore che Dio è vivo e molto coinvolto nella storia, perché coinvolto nella storia delle persone umane, pronunziò quella frase: «Non abbiate paura!» (22 ottobre 1978, inizio Pontificato e nell’Enciclica Redemptor Hominis). Egli testimoniò ciò in tutto il suo pontificato. Alludendo continuamente a un Dio che cammina accanto a ogni uomo e a ogni donna. Se Dio è pieno d’amore, ne consegue che tutto il resto è degno di amore e che la Chiesa deve essere testimone di questo, di un Dio che esiste e che ci ama, oltre che testimone di un uomo che Dio ama. La Chiesa, durante l’anno liturgico, «ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada» (Benedetto XVI, Udienza Generale del 13 aprile 2011). La Liturgia è un “rendere gloria e grazie” a Dio, non in un modo individuale, egoistico, ma comunitario, perché ogni uomo deve lodare il Signore: la Liturgia è anzitutto per Dio, orientata a Lui, più che per l’uomo in sé stesso. Però in essa deve “entrare” ogni uomo e donna, con tutto ciò che è e che ha (la sua cultura, le sue specificità) per ringraziare Dio e lodarlo, per esprimere il proprio fondamentale esistere “da” Dio. La vita stessa deve essere considerata come una Liturgia, di cui fanno parte la gioia, la sofferenza, la malattia, persino l’ingiustizia. Ma per comprendere che l’uomo vivente è la gloria di Dio «vi è bisogno dell’evangelizzazione, la nuova evangelizzazione e poi il nuovo umanesimo e la “civiltà dell’amore”. Quest’ultima è il frutto dell’accoglienza del Dio trinitario nella vita personale e sociale, cioè nella cultura e nella politica». La Chiesa, espressione della cultura dell’amore presente nel mondo, rendendosi voce di chi è oppresso e perseguitato, è portatrice dei valori incarnati e vissuti, difendendo la vita, ogni vita dal concepimento fino alla morte naturale, difensore della dignità della persona umana. E allora come essere noi la gloria di Dio? Sentirsi coinvolti nella vita personale: cioè l’impegno di diventare santi alla misura dei bisogni dei tempi; santi, cioè lasciarsi coinvolgere dall’amore di Dio, facendosi afferrare da Lui per ricevere in cambio la forza della vita che non ha paura di nessuno e di niente, eccetto che di Dio. «Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato a essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti». Lo ha detto Benedetto XVI, durante l’Udienza generale del 13 aprile 2011. «In Cristo – ha affermato il Papa – il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità. La santità, la pienezza della vita cristiana, non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. È l’essere conformi a Gesù». In questo cammino alla santità la logica del dialogo deve essere sempre approfondita e arricchita, tenendo presente che l’elemento forse più importante non è tanto o solo sentirsi pronti a livello personale, a porsi in dialogo con l’altro, ma concentrare piuttosto la propria attenzione sull’altra persona, con tutta la sua alterità, la sua differenza, che deve essere valorizzata nell’ambito del dialogo e mai misconosciuta o addirittura schiacciata. Gli eventi storici, economici e atmosferici di questi ultimi tempi contribuiscono particolarmente a ricordarci la fragilità dell’esistenza umana, ma anche la potenza di un Dio che vive con noi, nella nostra debolezza, tutte le vicende che affrontiamo, per essere la nostra Pasqua, cioè per permetterci il passaggio da un’esperienza di morte spesso oggettiva alla forza della vita che non passa e che è Lui stesso. Non abbiamo paura di aprire le porte a Cristo! Non abbiamo paura di tendere verso l’Alto! Non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore.

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