La liturgia e la morte corporale

Il Concilio Vaticano II dice: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (Gaudium et Spes, 1). 

È compito della Chiesa annunciare e testimoniare la speranza cristiana, fondata sulla fede nella morte e Resurrezione di Gesù. Il regno dei cieli, che siamo invitati a rendere visibile sulla terra, è paragonato a un chicco di senape, invisibile come la capocchia di uno spillo. In un mondo apparentemente sazio e potenzialmente disperato, Dio continua a rivelarsi all’uomo come fonte di gioia autentica e di speranza fondata. La sua Parola libera l’uomo dalle false illusioni e gli mostra traguardi gratificanti raggiungibili anche in questa vita terrena; altri, oltre il tempo e lo spazio, li donerà a chi ha posto in lui la sua speranza. Il cristianesimo non è solamente una dottrina da approfondire, ma soprattutto una proposta di vita da accettare e da sperimentare. Occorre, allora, impegnarsi, sforzarsi secondo le proprie energie di calare nella quotidianità gli insegnamenti divini. Ancora il Concilio dice: «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo. Non solo si affligge l’uomo, al pensiero dell’avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, e anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definito della sua persona. Il germe di eternità che porta in sé, irriducibile come è alla sola materia, insorge contro la morte» (Gaudium et Spes, 18). Un avvenimento terribile, che può capitare da un momento all’altro, ci terrorizza. Allora non dobbiamo attendere la morte, che ci introdurrà nel regno dei cieli passivamente. Questi avvenimenti sicuri li dobbiamo, in un certo senso, prevenire: tenendo la nostra lampada pronta e con olio di riserva a portata di mano. Le “lampade” sono gratuite (vita, vocazione, promessa eterna); l’olio è semigratuito: sacramenti e preghiera, ma occorre la buona volontà di fare rifornimento. Per molti l’idea e la parola “morte” devono essere cancellate dal vocabolario personale quotidiano, specialmente nel periodo della giovinezza e dell’età matura; poi, a mano a mano che si entra nella vecchiaia, si può iniziare a prepararsi a questo ultimo viaggio. Altri, quando si nomina la morte, compiono gesti scaramantici. Invece, bisogna avere il coraggio di guardare alla vita nella pienezza del suo significato, una vita che ha già qui il carattere del “per sempre”, perché si vive l’amore di Dio che è eterno, ma che, per proiettarsi nel definitivamente nuovo, deve distruggere l’antico tramite la morte. In parole più semplici: ognuno di noi è come una casa, che ogni giorno che passa diventa sempre più fatiscente nel suo aspetto esteriore. Dio ci propone di costruire, al posto della catapecchia, una villa meravigliosa e salda per sempre. È ovvio che, perché si possa realizzare il progetto divino, ognuno di noi deve accettare che venga demolita la casa vecchia, ogni giorno dobbiamo morire al nostro egoismo, alla sensualità e renderci conto con gioia di quella collaborazione al progetto meraviglioso di Dio, accettare anche le difficoltà della vecchiaia. San Paolo esprimeva questa sua disponibilità con le parole: «È mio desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio» (Fil 1,23). Quanto noi facciamo nell’oggi è già “intriso” di eternità e già ci proietta progressivamente in essa. Un bambino chiuso nell’utero materno non immagina il multiforme spettacolo che lo attende dopo la nascita. Quando noi ascoltiamo la Parola di Dio, dobbiamo in ogni modo assumere un atteggiamento di risposta: o non ce ne curiamo, o decidiamo di non volerla mettere in pratica, o ci impegniamo alla sua realizzazione. Però esiste il “contrario”, che tenta in tutti i modi di vanificare in noi l’effetto della Parola. Anche per questo non riusciamo a realizzarla come vorremmo. Non ci perdiamo d’animo per la zizzania, che è il nostro peccato. A condizione, però, che non siamo noi a seminarla, che noi non la vogliamo e non l’amiamo, che ci impegniamo a seminare tanto bene ogni giorno. È umano avere paura della morte, specialmente se uno ci pensa poche volte. Una persona che non conosci, se la devi avvicinare per allacciare rapporti con lei, ti incute sempre diffidenza e paura. Poi quando impari a conoscerla, le cose cambiano. Pensa spesso alla morte, ma sempre illuminata dalla luce sfolgorante della tua Resurrezione e ascensione al cielo. Forse ti farà paura ugualmente, ma sicuramente non ti incuterà più terrore. Se la storia di Gesù terminasse con la tragedia del venerdì santo, nessuno scommetterebbe la vita su di lui. La storia della Resurrezione succede a quella della passione e della morte di Gesù. Il credente non deve solamente professare il mistero della morte e passione di Gesù, ma deve viverlo in se stesso. La celebrazione settimanale del giorno del Signore (la domenica) ti aiuta a ricordare e ad anticipare il giorno senza tramonto. Dobbiamo vivere il giorno festivo come un giorno di rinnovata speranza. «La liturgia è un meraviglioso gioco davanti a Dio, in un’armoniosa sinfonia, fatta di un’umana serietà e di divina serenità» (Romano Guardini). Il riposo festivo, nel quale hai tempo per fare una pausa nel tuo lavoro quotidiano e per riflettere sui valori che vanno oltre il tempo e lo spazio, costituisce anche una forma positiva di contestazione di una cultura, che ti circonda da ogni parte, secondo la quale conta “ciò che si ha” e poco o nulla “ciò che si è”. Durante i giorni feriali si sperimenta la separazione (ognuno fa il proprio lavoro), nel tempo festivo si vive il convergere verso uno stesso luogo, lo stare insieme: “essere con”.

 

di Don Salvatore Rinaldi

 

articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 15 Maggio 2017

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