Essere testimoni è sempre una sfida: ci vuole coraggio per dire la verità, per essere fedeli a quanto si è visto, senza badare a favoritismi, disposti a pagare di persona pur di non tradire la verità. Ma oggi viviamo in un’epoca dove abbondano le false testimonianze e siamo diventati diffidenti verso chi reclamizza un prodotto per spingere la gente a comprarlo.
Certo, la fede non è un prodotto commerciale, ma anch’essa richiede testimoni credibili, al di sopra di ogni sospetto. Per nostra fortuna, il primo testimone fedele è Gesù Cristo stesso, è lui il criterio di verità che diventa norma di vita per ogni uomo e donna “di buona volontà”. A noi spetta il compito di rinnovare la nostra testimonianza nei modi, nei gesti e nella coerenza delle opere, in modo che un giorno il Signore non abbia a vergognarsi di noi. Il contrario di un popolo cristiano è un popolo triste. Friedrich W. Nietzsche, rivolgendosi ai cristiani diceva: «Se la vostra fede vi rende beati, datevi da conoscere come beati! Se la lieta novella della vostra Bibbia vi stesse scritta in faccia, non avreste bisogno di imporre così rigidamente la fede». Oggi comprendiamo l’insistenza di Papa Francesco nel suo richiamo alla gioia del Vangelo. Nella Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (EG) n. 83 dice: «si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore. [...] Per tutto ciò mi permetto di insistere: non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione». Nella stessa Esortazione afferma: «Non fuggiamo dalla Resurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada» (EG 3). La fede cristiana guarda infatti al Cristo della Pasqua, vedendo in lui il Crocifisso risorto. Non si ferma a contemplare un crocifisso, che se rimanesse per sempre inchiodato al legno maledetto diverrebbe uno dei troppi crocifissi aggiunti alla storia; puoi provarne pietà, non vedervi liberazione e salvezza. Nemmeno ci s’immerge solamente nel Risorto, quasi che la Resurrezione sia il facile superamento e non piuttosto lo svelamento della croce; ciò che è superato ci sta alle spalle e possiamo non pensarci più, ciò che è svelato ci sta di fronte e siamo chiamati continuamente a decifrarne il senso. E, dopo la Pasqua, le croci rimangono nella storia, anche se illuminate da quell’evento. La croce da sola, staccata dalla Resurrezione, ci rende dei delusi; unicamente la Resurrezione, separata dalla croce, fa di noi degli illusi; e invece siamo donne e uomini di speranza, appunto perché crediamo nel Crocifisso risorto. Dicevano i due discepoli di Emmaus: «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute» (Lc 24,21). Si sono fermati al Crocifisso, non credono nemmeno alle donne «venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che Egli è vivo» (Lc 24,23). Il Risorto cammina con i discepoli di Emmaus, così come cammina con noi; mediante la Parola e il pane opera il passaggio pasquale dallo spegnimento interiore al cuore che arde. Papa Francesco dice: «La Resurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della Resurrezione. È una forza senza uguali» (EG 276). Ogni giorno il cristiano chiede al Padre: «Venga il tuo regno!». C’è, nell’atteggiamento del cristiano, una riserva escatologica, che gli fa valorizzare tutto e non assolutizzare nulla; gode di ogni realtà, l’assapora fino in fondo, e tuttavia non la considera la totalità cui aggrapparsi o da trattenere in un’ansia di possesso e di conquista. Il cristiano ancora dice: Maranathà: vieni non tardare, l’irrisolto della storia impedisce ogni illusione. «Il già della salvezza donata in Cristo è segnato dal non ancora, che fa sì che il mondo e gli stessi credenti, talora minacciati di lasciarsi schiacciare dall’eccesso del male e della sofferenza, continuino a sentirsi non ancora salvati. È vero, la potenza della Resurrezione di Cristo è all’opera, e perciò la Chiesa rende grazie a Dio; ma essa si esercita in una umanità che, per troppi essere umani, è vissuta come una “valle di lacrime”, perciò la Chiesa supplica Dio senza sosta». (L. Chauvet, I sacramenti, Ancora, Milano 1997, pp. 146-148). Il Cristo risuscitato è il nuovo Adamo; la sua impronta è su ogni uomo e donna fin dalla creazione, ma ha bisogno di venire alla luce in pienezza. Questo vale per l’intero cosmo, se è vero che «la creazione geme e soffre le doglie del parto fino a oggi» (Rm 8,22). Se infatti è un controsenso dirsi testimoni della Resurrezione con visi tristi e discorsi pessimistici, non è possibile nemmeno che si pensi al Vangelo come un prodotto sponsorizzato da testimonial con il sorriso a dentatura piena stampato sulla faccia, quasi si dovesse fare pubblicità a un prodotto miracoloso, con il quale tutto viene immediatamente risolto. Noi annunciamo che il Crocifisso è sì risorto, ma il Risorto rimarrà sino alla fine della storia il Crocifisso; non riconoscere la prima parte dell’affermazione significa stare nel mondo da persone deluse; dimenticarsi della seconda parte equivale a essere persone illuse. Invece, in quanto cristiani, siamo donne e uomini di speranza, collocati tra il già e il non ancora di una salvezza, donataci appunto dalla speranza.
di Don Salvatore Rinaldi
articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 5 giugno 2017
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