Andate per strada o in qualsiasi luogo pubblico e vedrete coppie di persone che, se pure fisicamente vicine, sono in realtà separate dalla presenza di smartphone attraverso cui parlano, cercano informazioni, inviano messaggini.
È questa una tendenza sempre più diffusa: cerchiamo di essere continuamente collegati per non sentirci soli e siamo distaccati e distratti nei confronti di chi ci sta accanto. Anche la convinzione che la solitudine sia intollerabile – e non invece una necessità per rielaborare le esperienze, rilassarci, ritrovare noi stessi, coltivare gli attaccamenti reali – rischia di renderci instabili, sempre alla ricerca di una qualche novità, ansiosi se i nuovi messaggi tardano ad arrivare. Eccoci dunque di fronte a una sfida: riuscire a utilizzare le nuove tecnologie senza perderci in esse, servirci della comunicazione elettronica senza diventare schiavi dei suoi ritmi e delle sue persistenti sollecitazioni, non lasciarci sedurre dai robot a scapito della socializzazione tradizionale che, se pure, a volte, indisponente e meno attraente nel-l’immediato, si basa però su scambi e forme di comunicazione meno illusorie, rigide e stereotipate rispetto a quelle provenienti dai nuovi prodotti della robotica. Siamo arrivati al “momento robotico”, al momento in cui siamo disposti a considerare le macchine quali interlocutori per le nostre questioni personali, ossia intime, non significa che abbiamo costruito macchine adatte a questo compito, ma che noi siamo pronti a conferire loro questo ruolo. Tutto ciò è in relazione sia con la delusione nei confronti dei nostri simili, sia con lo sviluppo di un nuovo tipo di macchine che anche se non ci comprendono possiamo fingere che lo facciano. Possiamo lasciarci impressionare non dalla loro intelligenza, ma dalla loro socievolezza. Le persone vogliono proprio questo, avere fiducia nelle macchine che offrono un’illusio-ne d’amicizia senza le esigenze dell’intimità. È importante fermare l’attenzione su questo desiderio. La sensazione che “nessuno mi ascolta” riveste un ruolo essenziale nelle nostre relazioni con le nuove tecnologie. Per questo siamo attratti dall’avere una pagina su Facebook o un account Twitter – per poter beneficiare di numerosi uditori automatici. E questa sensazione che “nessuno mi ascolta” ci dà voglia di passare del tempo con macchine che sembrano prendersi davvero cura di noi, con i loro programmi di conversazione come una delle grandi attrattive della rete è che offre la possibilità, o almeno il fantasma, di relazioni senza rischi. Viviamo in un mondo tormentato da una grande paura, quella di commettere errori. Allora le persone fantasticano su una vita che abbia la stessa precisione di un’applica-zione. La tecnologia semplifica le emozioni. Vale a dire che aiuta a gestire online le conversazioni difficili. Ma quando queste vengono gestite online, spesso non sono gestite affatto, ma vengono differite, e il nostro interlocutore si sente ignorato. Allo stesso modo, chiedere scusa online non è come scusarsi davvero. Digitare “Mi dispiace” e cliccare “invio” non è come formulare un discorso di scuse deputato a manifestare che si soffre per aver fatto un torto a qualcuno, aprendo la strada alla sua compassione e al perdono. Nel momento in cui le persone si sentono sole, diventano ansiose. Si agitano, cercano un apparecchio elettronico. Basta guardare la gente che aspetta in coda oppure chi è fermo a un semaforo. Come se essere soli fosse un problema che necessita subito di soluzione. E le persone cercano di risolverlo connettendosi. Ma in questo caso la connessione è più un sintomo che una cura: esprime il problema soggiacente senza gestirlo davvero. Meglio ancora, la connessione permanente cambia ciò che le persone pensano di se stesse. Si tratta di un nuovo modo di essere che può riassumersi così: “Condivido, dunque sono”. La tecnologia serve a definire se stessi attraverso la condivisione di pensieri e sentimenti. Il problema del “Condivido, dunque sono”, sta nel fatto che se non siamo connessi, non ci sentiamo più noi stessi. Allora, che fare? Ci connettiamo! Sempre di più. Ma in questo modo ci isoliamo sempre di più. Eppure la solitudine è assolutamente importante, perché costituisce la base dei nostri attaccamenti reali. È attraverso la solitudine che possiamo ritrovarci. Nel momento in cui ci rivolgiamo ad altre persone solo per sentirci più vivi, non siamo più in grado di apprezzare ciò che sono. È come se le usassimo come pezzi di ricambio per sostenere il nostro io fragile. Se qualcuno passa più tempo al cellulare, cosa negativa per il lavoro, le relazioni, la capacità di sviluppare la creatività nella solitudine, non è necessario che viva senza telefono, ma che viva la miglior vita possibile con questo strumento. Si può fare a meno del telefono cellulare durante la cena per parlare meglio con i figli. Diminuisce la nostra capacità di intimità, di empatia, di solitudine, ma noi siamo resilienti.
di Don Salvatore Rinaldi
articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 03 luglio 2017
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