Se domani nel nostro paese o in quello accanto scoppiasse una guerra, se si diffondesse una terribile epidemia, vedreste le chiese riempirsi come per magia. La fede non potrebbe forse realizzare quello che ispira la paura?
«Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”» (Lc 11,1).
Dio non è per nulla complice di quello che fa soffrire l’essere umano. Non vuole che siamo infelici, non vuole che soffriamo, non vuole che moriamo. È vero, il dolore, la sofferenza e la morte sono “naturali”, nel mondo così com’è oggi, ma, giustamente, il mondo presente non è come dovrebbe essere e come Dio l’ha voluto in principio. È vero che, provvisoriamente, finché esisterà questo mondo decaduto, Dio ricava il bene dal male e è capace di dare un valore di redenzione a tutte le nostre sofferenze.
Dio prova orrore per il male che imprigiona il mondo, e soffre lui stesso, più di noi, per la minima sofferenza che ferisce il più piccolo dei suoi figli.
Solo nel mondo nuovo della Resurrezione gloriosa, inaugurato il giorno di Pasqua, Dio potrà salvare e trasfigurare integralmente e per davvero l’uomo e il mondo.
Ecco perché la preghiera di richiesta più decisiva è quella in cui, nel Padre nostro, supplichiamo Dio di far arrivare il suo regno. Infatti, solo dopo l’avvento del regno, Dio potrà esaudire definitivamente tutte le nostre richieste.
La domanda è: perché dopo l’inaugurazione di questo mondo nuovo il giorno di Pasqua, il Signore ha ancora lasciato trascorrere i venti secoli della nostra storia cristiana, in cui, in mezzo a tanti splendori, si è realizzato un corteo di mali e di sofferenze talvolta insopportabili? Perché questa attesa di duemila anni?
Questi venti secoli dopo la Resurrezione di Gesù sono, in ogni caso, il tempo della pazienza di Dio, in cui offre all’umanità la possibilità di convertirsi e di dire “sì” a Gesù.
«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Mi chiedo se ciò che paralizza Dio ancora oggi non sia la nostra mancanza di fede nel ritorno glorioso di Gesù, che deve preludere alla trasfigurazione e alla guarigione definitiva dell’universo.
Un solo grande avvenimento deve ancora realizzarsi nella storia: il ritorno di Gesù nella gloria e la fine di questo mondo.
In più di un periodo della storia della Chiesa si è pensato di essere giunti alla prova decisiva, eppure siamo ancora qua! Gesù stesso, del resto, ci mette in guardia: «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: “Sono io” e “Il tempo è prossimo”; non seguiteli» (Lc 21,8).
Uno dei criteri che stabilisce il giusto atteggiamento di fronte a tale questione è che la nostra attesa del mondo nuovo deve unirsi a un impegno concreto nei doveri del presente. È molto urgente risvegliare nel popolo cristiano il desiderio ardente della venuta di Gesù nella gloria.
Non perdiamo di vista che la vita terrena è solo la prima fase della nostra vita, in quanto il mondo presente, nel suo insieme, attende «di essere liberato dalla schiavitù della corruzione» (Rm 8,21).
La nostra speranza va oltre l’attuale condizione dell’uni-verso, perché «noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (Pt 3,13). Solo là Dio potrà realizzare la nostra definitiva felicità.
Gli evangelisti ci raccontano che il Signore sovente si staccava dal gruppo dei discepoli, saliva sul monte, e tutto solo pregava. Gli apostoli, bravi israeliti, dovevano stimare la preghiera; ma di fronte al comportamento di Gesù, ritennero la sua una preghiera speciale. E vollero impararla: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1).
Allora Gesù: «Quando pregate dite...» (Lc 11,1-2). Era il Padre nostro.
La prima parola che Gesù propone è Padre. In realtà egli diceva Abbà, parola aramaica con la connotazione della tenerezza, quasi il balbettio di bambini: papà. È la grande rivelazione su Dio che ci ha fatto Gesù. E papà è da allora, per noi, il volto nuovo e definitivo di Dio.
Dopo Padre, aggiungiamo l’aggettivo nostro. Non “mio”, ma “nostro”. Non “dammi”, ma “dacci”. Perciò preghiamo al plurale: «Rimetti a noi [...] liberaci dal male» (Mt 6,12-13). Non da soli, ciascuno per proprio conto, ma in gruppo, in comunità. Così usciamo dall’isolamento, dalla solitudine.
Poi Gesù propone di fare oggetto di domanda il sentirci fratelli impegnati a realizzare una società rinnovata, chiamati a formare il Regno di Dio. Perciò ci fa domandare: «Venga il tuo regno» (Mt 6,10).
La Chiesa è impegnata in un progetto che la supera, perché comincia ora sulla terra ma si completerà in una dimensione di futuro in Dio.
Poi chiediamo che scatti in noi la molla per realizzare il progetto del regno: «sia fatta la tua volontà» (Mt6,10). Non è una volontà dispotica e capricciosa: è la volontà di Dio, quindi ragionevole e buona, animata da sentimenti paterni, nel rispetto assoluto della libertà dei figli.
Quante volte i cristiani pregano dicendo: «sia fatta la tua volontà» (Mt 6,10) con un’aria da cani bastonati e piegando già la schiena per prevenire “la caduta della prossima tegola”, mentre invece la volontà di Dio è che «noi abbiamo la vita, e che l’abbiamo in abbondanza» (Gv 10,10).
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