Bisogno di comunità che parlino

Ognuno di noi, anche il più ignorante, si è fatto un’idea di cosa voglia dire nascere, crescere e morire: ha quindi l’idea, per quanto ingenua e riduttiva, delle cose di cui si occupa la biologia, anche se magari non ha mai sentito questa parola.

Ognuno di noi, per il semplice fatto di vivere e di essere vissuto insieme ad altri esseri umani, si è fatto una serie di idee su qualcosa che nel linguaggio di tutti i giorni chiamiamo società. Tre grandi sociologi italiani contemporanei, Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli e Alessandro Cavalli, sostengono che ognuno di noi è in un certo senso un sociologo senza sapere di esserlo e dispone di un sapere su come vanno le cose nel mondo dei rapporti sociali. Questo sapere è indispensabile per poter sopravvivere in mezzo ai nostri simili e ne verifichiamo in continuazione l’utilità, anche se non siamo in grado di valutarne il grado di attendibilità. L’apprendimento di questo “sapere ingenuo e quotidiano” ha avuto inizio subito dopo la nascita, quando abbiamo incominciato a comunicare il nostro stato di bisogno in modo che qualcuno si preoccupasse di alimentarci. Da allora giorno dopo giorno abbiamo imparato bene o male a districarci nella rete dei rapporti sociali, abbiamo imparato a nutrire aspettative relative al comportamento degli altri nei nostri confronti. Chi andrebbe a scuola se non sapesse che salvo imprevisti c’è un insegnante che è venuto apposta per tenere una lezione? La vita sociale sarebbe veramente impossibile se non potessimo nutrire ragionevoli aspettative, quindi se non avessimo qualche conoscenza sufficientemente affidabile sul comportamento delle persone che incontriamo sul nostro cammino. Questo sapere, per quanto utilissimo, ha dei limiti. È innanzitutto legato alla nostra esperienza diretta che, per quanto possa essere vasta, è comunque circoscritta. Al di là dello spazio sociale di cui abbiamo esperienza, dobbiamo fare affidamento sul “sentito dire”, cioè sull’esperienza degli altri. Prima di arrivare a noi la conoscenza derivata dall’esperienza altrui ha probabilmente subito deformazioni che non siamo in grado di controllare e, inoltre, possiamo fare nostre credenze e pregiudizi che ci danno un’immagine distorta della realtà. D’altra parte, se la fonte del sapere è l’esperienza, questa è inevitabilmente legata al presente, mentre la società in cui viviamo esisteva prima di noi e ci auguriamo esisterà anche dopo di noi: ha cioè una dimensione temporale che trascende quella di coloro che di volta in volta ne sono gli abitanti. La sociologia, come scienza sociale, dispone di qualche strumento in più per superare i limiti della sociologia ingenua di senso comune, ma non può prescindere dalla presenza di quest’ultima. Sempre i sociologi Bagnasco, Barbagli e Cavalli sostengono che in molti casi la conoscenza sociologica conferma le opinioni di senso comune, ma talvolta le smentisce e talaltra le contraddice e formula proposizioni che sono controintuitive. Mentre il sapere sociologico comune ci offre soltanto le conoscenze minime necessarie ad affrontare in qualche modo i problemi di tutti i giorni, la sociologia come scienza sociale formula interrogativi sulla base di una riflessione teorica sedimentata e cerca risposte a questi interrogativi sulla base di informazioni raccolte sistematicamente. La sociologia può quindi aiutarci a capire meglio il mondo in cui viviamo, ma non ci può dare certezze assolute. Chi ha bisogno di certezze dovrà rivolgersi alla fede religiosa o a convinzioni ideologiche. La sociologia (come tutte le scienze) può dare solo “ragionevoli certezze”, certamente più affidabili di quelle del senso comune, ma sempre provvisorie ed esposte a critica e revisione. Oggi ci troviamo anche in una crisi religiosa. Oggi i cattolici cessano di essere una maggioranza e il loro cattolicesimo si fa più evanescente. Siamo di fronte a uno scenario meno connotato dal cattolicesimo e più genericamente cristiano. Ma questo aspetto di fondo andrebbe posto in relazione anche con il perdurare, il sovrapporsi e il modificarsi della cosiddetta religiosità popolare. Essa affonda le proprie radici nelle forme di tipo devozionistico, con un debole tasso di ecclesiasticità, a bassa tensione culturale e oggi a sfondo fortemente individualistico. Essa non è stata intaccata né dal riformismo conciliare (troppo elitario), né dalle proposte pastorali della CEI. È una religiosità del sottosuolo che oggi è emersa anche grazie alla canonizzazione di Padre Pio da Pietrelcina, a strumenti di comunicazione come Radio Maria, a pellegrinaggi religiosi sui luoghi delle apparizioni mariane, Medjugorie sopra tutti. È un problema di fondo. C’è da operare in Italia una necessaria rievangelizzazione del religioso e del sacro. La categoria di cattolicesimo popolare, che segnala una componente importante del nostro cattolicesimo, è categoria limitativa rispetto a quella più ampia e pertinente di “popolo di Dio”. Per chi ha bisogno di certezze, al messaggio cristiano servono le parole e le opere, da uomo a uomo, di tutti i battezzati. Abbiamo bisogno di comunità che parlino. Che parlino un linguaggio comune, che annuncino fuori da un linguaggio ecclesiastico. Un annuncio che abbia dentro il fuoco del Vangelo, che metta nuovamente al centro la Parola secondo il nuovo paradigma di papa Francesco. Tutto il suo pontificato è forse riassumibile nell’affermazione estrema che il Vangelo è ancora possibile. Così il suo impulso per una Chiesa in uscita da sé, dalla propria «ossessiva riconferma», dal proprio narcisismo è a un tempo la misura della sfida e la misura della possibilità. Questa sfida è in capo a tutto il popolo di Dio.

 

Don Salvatore Rinaldi

Scrivi commento

Commenti: 0