Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci fa vedere il confessionale come un luogo in cui la verità ci rende liberi per un incontro.
Dice così: «Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del buon pastore che cerca la pecora perduta, quello del buon Samaritano che medica le ferite, del padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto giudice che non fa distinzione di persone e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insomma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell’amore misericordioso di Dio verso il peccatore» (CCC, n. 1465). E ci ricorda che «il confessore non è il padrone, ma il servitore del perdono di Dio. Il ministro di questo sacramento deve unirsi all’intenzione e alla carità di Cristo» (CCC, n. 1466). Prima di addentrarci nel cuore di questo sacramento di misericordia, è opportuno chiarirci sul concetto di peccato. Papa Benedetto XVI spiega molto bene e in diverse occasioni cos’è il peccato, servendosi di un’efficace metafora: «Il peccato è una sorta di paralisi dello spirito da cui soltanto la potenza dell’amore misericordioso di Dio può liberarci, permettendoci di rialzarci e di riprendere il cammino sulla via del bene» (Benedetto XVI, Angelus, domenica 22 febbraio 2009) Per cui peccando ci creiamo questa situazione reversibile di “paralisi” che genera una mancanza di comunicazione tra noi e Dio. Papa Francesco, giovedì 2 giugno 2016, rivolgendosi ai sacerdoti confessori durante un ritiro spirituale (in occasione del Giubileo dei sacerdoti nell’ambito del Giubileo straordinario della Misericordia), sostiene: «Siamo strumento se veramente la gente si incontra con il Dio misericordioso. A noi spetta “far che si incontrino”, che si trovino faccia a faccia. Quello che poi faranno è cosa loro. C’è un figlio prodigo nel porcile e un padre che tutte le sere sale in terrazza per vedere se arriva; c’è una pecora perduta e un pastore che è andato a cercarla; c’è un ferito abbandonato al bordo della strada e un samaritano che ha il cuore buono. Qual è, dunque, il nostro ministero? Essere segni e strumenti perché questi si incontrino. Teniamo ben chiaro che noi non siamo né il padre, né il pastore, né il samaritano. Piuttosto siamo accanto agli altri tre, in quanto peccatori. Il nostro ministero dev’essere segno e strumento di tale incontro. Perciò ci poniamo nell’ambito del mistero dello Spirito Santo, che è Colui che crea la Chiesa, Colui che fa l’unità, Colui che ravviva ogni volta l’incontro. […] Se uno si avvicina al confessionale è perché è pentito, c’è già pentimento. E se si avvicina è perché ha il desiderio di cambiare. […] Bisogna imparare dai buoni confessori, quelli che hanno delicatezza con i peccatori e ai quali basta mezza parola per capire tutto, come Gesù con l’emorroissa, e proprio in quel momento esce da loro la forza del perdono […] Ma quei confessori – perdonatemi – che domandano e domandano…: “Ma dimmi, per favore…”. Tu hai bisogno di tanti dettagli per perdonare oppure “ti stai facendo il film”? […] La completezza della confessione non è una questione matematica – quante volte? Come? dove?... –. A volte la vergogna si nasconde più davanti al numero che davanti al peccato stesso. Ma per questo bisogna lasciarsi commuovere dinanzi alla situazione della gente, che a volte è un miscuglio di cose, di malattia, di peccato, di condizionamenti impossibili da superare, come Gesù che si commuoveva vedendo la gente, lo sentiva nelle viscere, nelle budella» (Papa Francesco, Ritiro spirituale in occasione del Giubileo dei sacerdoti, giovedì 2 giugno 2016, III meditazione) Su questo particolare aspetto della discrezione il Santo Padre batte molto con i sacerdoti confessori, tanto che lo ribadisce di nuovo anche al termine della meditazione, momento nel quale sintetizza quanto detto in due consigli finali, di cui uno è «Non siate curiosi nel confessionale». A tal proposito è molto interessante riportare quanto scritto già in un documento del 1551 promulgato niente meno che dal Concilio di Trento riguardo all’esposizione dei peccati veniali (quelli involontari o comunque lievi): «I peccati veniali, nei quali cadiamo più facilmente, benché opportunamente ed utilmente e al di fuori di ogni presunzione vengano manifestati in confessione (come dimostra l’uso di persone pie), possono tuttavia essere taciuti senza colpa ed espiati con molti altri rimedi» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. V) L’altro consiglio finale di Papa Francesco ai confessori è: «Non abbiate mai lo sguardo del funzionario, di quello che vede solo “casi” e se li scrolla di dosso. La misericordia ci libera dall’essere un prete giudice-funzionario, diciamo, che a forza di giudicare “casi” perde la sensibilità per le persone e per i volti». Anche in questo caso, già il Concilio di Trento nel 1551 si pronunciava in questa direzione: «Gli antichi padri non pensarono mai che il sacramento della penitenza fosse il tribunale dell’ira e delle pene. Così come nessun cattolico credette mai che da queste nostre soddisfazioni venisse oscurato, o in qualche parte diminuito il valore del merito e della soddisfazione del Signore nostro Gesù Cristo» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. VIII) A tal proposito, è doveroso precisare che quando il Concilio di Trento parla di “soddisfazione” la intende in senso giuridico. Come nel diritto la soddisfazione è «l’obbligo dello stato responsabile di un illecito di reintegrare, in favore dello stato leso, i valori immateriali che l’illecito ha offeso» (Vocabolario Treccani) così nella confessione la soddisfazione è la penitenza nel senso di ristabilimento dell’equilibrio e dell’armonia spezzati col peccato. Sempre il Concilio di Trento indica come «materia di questo sacramento gli atti dello stesso penitente e cioè: la contrizione, la confessione, la soddisfazione. E poiché questi si richiedono, nel penitente, per l’integrità del sacramento e per la piena e perfetta remissione dei peccati, per questo sono considerati parti della penitenza» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. III) Per cui se ad esempio io ho rubato 10000 euro a una persona, è necessario riconoscere il peccato e pentirsi di quanto fatto, ma è necessario anche restituire quanto rubato. Continua il documento: «Quanto alla soddisfazione – che, come fra tutte le parti della penitenza è stata sempre raccomandata al popolo cristiano dai nostri padri, così in questa nostra età è quella che, sotto il pretesto di una vivissima pietà, viene maggiormente presa d’assalto da coloro che mostrano certamente l’apparenza della pietà, ma ne negano la sostanza – il santo sinodo dichiara essere assolutamente falso e lontano dalla parola di Dio, che dal Signore mai venga rimessa la colpa, senza che venga completamente rimessa anche la pena. Vi sono infatti, nella sacra Scrittura, esempi chiari ed evidenti, da cui, al di fuori della Divina tradizione, questo errore può essere confutato. [...] Ed è conforme alla divina clemenza, che non ci vengano rimessi i peccati senza alcuna nostra soddisfazione, perché non avvenga che noi, prendendo occasione da ciò, e credendo tutti i peccati leggeri, come gente sempre pronta a recare ingiuria e offesa allo Spirito santo, cadiamo i peccati più gravi» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. VIII) L’esclusione totale di una “penitenza” o “soddisfazione” appropriate, come intese pocanzi, potrebbe dunque autorizzare il penitente a «credere leggeri tutti i propri peccati» e quindi potrebbe indurlo non solo a continuare a farne, ma anche con maggiore facilità. Tuttavia: «I sacerdoti del Signore […] secondo che suggerirà lo spirito e la prudenza, devono imporre salutari e giuste soddisfazioni, tenuto conto della qualità dei peccati, e delle possibilità dei penitenti» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. VIII). Ciò significa che il peccatore non va mortificato. La giustizia deve camminare mano nella mano con la misericordia. Il sacerdote deve essere sia docile allo Spirito sia prudente nel tener conto sia della gravità dei peccati commessi sia delle possibilità dei penitenti. «Alla misericordia si può applicare quell’insegnamento di Gesù: “Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,2). Permettetemi, ma io penso qui a quei confessori impazienti, che “bastonano” i penitenti, che li rimproverano. Ma così li tratterà Dio! Almeno per questo, non fate queste cose. La misericordia ci permette di passare dal sentirci oggetto di misericordia al desiderio di offrire misericordia. Possono convivere, in una sana tensione, il sentimento di vergogna per i propri peccati con il sentimento della dignità alla quale il Signore ci eleva» (Papa Francesco, Ritiro spirituale in occasione del Giubileo dei sacerdoti, giovedì 2 giugno 2016, I meditazione). Ma se da un lato un estremo è quello di impartire penitenze dure e sproporzionate, dall’altro è in agguato quello di ridurre la soddisfazione ad atti di dubbia utilità. Se ho rubato i 10000 euro di prima e il sacerdote “come penitenza” mi esorta a recitare 10 Ave Marie, la persona da me danneggiata resta danneggiata, l’equilibrio spezzato resta spezzato, il vuoto creato resta vuoto. La penitenza deve essere adeguata ed efficace. Emblematico è il celebre episodio legato a San Filippo Neri. «Un giorno, una chiacchierona nota in tutta Roma, andò a confessarsi da San Filippo Neri. Il confessore ascoltò attentamente e poi le assegnò questa penitenza: “Dopo aver spennato una gallina dovrai andare per le strade di Roma e spargerai un po’ dappertutto le penne e le piume della gallina! Dopo torna da me!”. La donna, un po’ a malincuore, eseguì questa strana penitenza e andò a riferirlo a Filippo Neri. Lui le disse: “La penitenza non è finita! Ora devi andare per tutta Roma a raccogliere le penne e le piume che hai sparso!”. “Tu mi chiedi una cosa impossibile!”, disse la donna. E il confessore le rispose così: “Anche le chiacchiere che hai sparso per tutta Roma non si possono più raccogliere! Sono come le piume e le penne di questa gallina che hai sparso dappertutto! Non c’è rimedio per il danno che hai fatto con le tue chiacchiere!”. «Quanto i novatori dimostrano di non voler comprendere ciò, essi insegnano che la vita nuova è la miglior penitenza; ma in modo tale da togliere alla soddisfazione ogni valore ed ogni utilità» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. VIII). Dopo la contrizione e la confessione, la vita nuova è la miglior penitenza ma, se il peccatore/penitente contrito e confessato cambia vita, è conseguente e necessaria anche quella “ricompensazione” legata alla soddisfazione. Emblematica è l’affermazione di Zaccheo: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo» (Lc 19,8) Infine nel corso dei secoli sono state aggiunte formule e sovrastrutture a un sacramento che è “solo” l’abbraccio del padre misericordioso al figliol prodigo. Anche su questo aspetto ci ammoniva già Trento mezzo millennio fa: «Insegna, il santo sinodo, che la forma del sacramento della penitenza, nella quale è posta tutta la sua efficacia, è in quelle parole del ministro: io ti assolvo ecc., alle quali nell’uso della santa chiesa, si aggiungono lodevolmente alcune preghiere, ma che non appartengono in nessun modo all’essenza della forma e non sono necessarie all’amministrazione del sacramento» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. III).
di don Salvatore Rinaldi
Rubrica "Fede e Società"
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