Confessione: cammino verso l'abbraccio (seconda parte)

«Alla misericordia si può applicare quell’insegnamento di Gesù: “Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,2). Permettetemi, ma io penso qui a quei confessori impazienti, che “bastonano” i penitenti, che li rimproverano. Ma così li tratterà Dio!

 Almeno per questo, non fate queste cose. La misericordia ci permette di passare dal sentirci oggetto di misericordia al desiderio di offrire misericordia. Possono convivere, in una sana tensione, il sentimento di vergogna per i propri peccati con il sentimento della dignità alla quale il Signore ci eleva» (Papa Francesco, Ritiro spirituale in occasione del Giubileo dei sacerdoti, giovedì 2 giugno 2016, I meditazione). Ma se da un lato un estremo è quello di impartire penitenze dure e sproporzionate, dall’altro è in agguato quello di ridurre la soddisfazione ad atti di dubbia utilità. Se ho rubato 10000 euro e il sacerdote “come penitenza” mi esorta a recitare 10 Ave Marie, la persona da me danneggiata resta danneggiata, l’equilibrio spezzato resta spezzato, il vuoto creato resta vuoto. La penitenza deve essere adeguata ed efficace. Emblematico è il celebre episodio legato a San Filippo Neri. Un giorno, una chiacchierona nota in tutta Roma, andò a confessarsi da San Filippo Neri. Il confessore ascoltò attentamente e poi le assegnò questa penitenza: “Dopo aver spennato una gallina dovrai andare per le strade di Roma e spargerai un po’ dappertutto le penne e le piume della gallina! Dopo torna da me!”. La donna, un po’ a malincuore, eseguì questa strana penitenza e andò a riferirlo a Filippo Neri. Lui le disse: “La penitenza non è finita! Ora devi andare per tutta Roma a raccogliere le penne e le piume che hai sparso!”. “Tu mi chiedi una cosa impossibile!”, disse la donna. E il confessore le rispose così: “Anche le chiacchiere che hai sparso per tutta Roma non si possono più raccogliere! Sono come le piume e le penne di questa gallina che hai sparso dappertutto! Non c’è rimedio per il danno che hai fatto con le tue chiacchiere!”. «Quanto i novatori dimostrano di non voler comprendere ciò, essi insegnano che la vita nuova è la miglior penitenza; ma in modo tale da togliere alla soddisfazione ogni valore ed ogni utilità» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. VIII). Dopo la contrizione e la confessione, la vita nuova è la miglior penitenza ma, se il peccatore/penitente contrito e confessato cambia vita, è conseguente e necessaria anche quella “ricompensazione” legata alla soddisfazione. Emblematica è l’affermazione di Zaccheo: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo» (Lc 19,8) Inoltre nel corso dei secoli sono state aggiunte formule e sovrastrutture a un sacramento che è “solo” l’abbraccio del padre misericordioso al figliol prodigo. Anche su questo aspetto ci ammoniva già Trento mezzo millennio fa: «Insegna, il santo sinodo, che la forma del sacramento della penitenza, nella quale è posta tutta la sua efficacia, è in quelle parole del ministro: io ti assolvo ecc., alle quali nell’uso della santa chiesa, si aggiungono lodevolmente alcune preghiere, ma che non appartengono in nessun modo all’essenza della forma e non sono necessarie all’amministrazione del sacramento» (Concilio di Trento, sessione XIV, 25 novembre 1551, cap. III). Il legame forte tra i documenti del Concilio di Trento e i documenti della nostra epoca non è casuale. Giovanni Paolo II, infatti, nell’Esortazione Apostolica Reconciliatio et paenitentia del 2 dicembre 1984 dichiara: «La fede della Chiesa in questo sacramento comporta alcune altre verità fondamentali, che sono ineludibili. Il rito sacramentale della penitenza, nella sua evoluzione e variazione di forme pratiche, ha sempre conservato e messo in luce queste verità. Il Concilio Vaticano II, nel prescrivere la riforma di questo rito, intendeva far sì che esso esprimesse ancor più chiaramente tali verità, e ciò è avvenuto nel nuovo “Rito della penitenza”. Questo, infatti, ha assunto nella sua integrità la dottrina della tradizione raccolta dal Concilio di Trento, trasferendola dal suo particolare contesto storico (quello di un deciso sforzo di chiarimento dottrinale di fronte alle gravi deviazioni dal genuino insegnamento della Chiesa) per tradurla fedelmente in termini più aderenti al contesto del nostro tempo». Giovanni Paolo II è molto chiaro a riguardo: l’attuale rito della penitenza conserva tutte le verità fondamentali proprie del sacramento della riconciliazione (pur evolvendosi e variando nella forma pratica). Esso dunque assume fedelmente la dottrina della tradizione e la traduce in termini contemporanei. E a proposito di verità fondamentali proprie del sacramento, ce n’è una in particolare chiara e manifesta nei documenti ufficiali della Chiesa, ma talvolta – forse troppo spesso – poco considerata, se non del tutto ignorata dai più: la dimensione comunitaria (nel senso di ecclesiale) del sacramento della riconciliazione. Infatti non tutti sono consapevoli che il peccato di ogni singolo battezzato offende e ferisce la credibilità della Chiesa di cui il battezzato in quanto tale è membro, non solo quella del singolo. Di conseguenza dopo la contrizione, la confessione e la soddisfazione il peccatore pentito viene riconciliato con Dio e con la comunità e da entrambi riaccolto. «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui; allo stesso tempo si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera. Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e d’una tale grandezza, tutti i fedeli d’ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità, la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste» (Paolo VI, Lumen Gentium, 21 novembre 1964, n.11) Questo dato, già affermato dal Concilio di Trento e ripreso dal Concilio Vaticano II, è di nuovo sottolineato con forza da Giovanni Paolo II: «La confessione individuale ha anche il valore di segno: segno dell’incontro del peccatore con la mediazione ecclesiale nella persona del ministro; segno del suo scoprirsi al cospetto di Dio e della Chiesa come peccatore, del suo chiarirsi a se stesso sotto lo sguardo di Dio. L’accusa dei peccati, dunque, non è riducibile ad un qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche se corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno, che è insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella sua drammaticità, umile e sobrio nella grandezza del suo significato. E’ il gesto del figlio prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da lui col bacio della pace; gesto di lealtà e di coraggio; gesto di affidamento di se stessi, al di là del peccato, alla misericordia che perdona. Si capisce allora perché l’accusa dei peccati deve essere ordinariamente individuale e non collettiva, come il peccato è un fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e, quindi, dall’ambito della pura individualità, mettendo in risalto anche il suo carattere sociale, perché mediante il ministro della penitenza è la comunità ecclesiale, lesa dal peccato, che accoglie di nuovo il peccatore pentito e perdonato (Giovanni Paolo II, Reconciliatio et poenitentia, 2 dicembre 1984, n. 31, III). Concludo questa breve riflessione sul sacramento della riconciliazione citando papa Paolo VI: «Seguendo il Maestro, [ogni cristiano] dovrà non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e dovrà anche vivere per i fratelli, dando compimento “nella sua carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo... a pro del suo corpo che è la Chiesa”. Inoltre, essendo la Chiesa intimamente legata a Cristo, la penitenza del singolo cristiano ha pure un suo proprio e intimo rapporto con tutta la comunità umana: non solo infatti è in seno alla Chiesa che egli riceve, nel Battesimo, il dono fondamentale della “metànoia” (conversione), ma tale dono viene restaurato e rinvigorito, in quelle membra del corpo di Cristo che sono cadute nel peccato, attraverso il Sacramento della Penitenza, “ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita con il peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, con l’esempio e con la preghiera” […] Il compito di portare nel corpo e nell’anima la morte del Signore investe tutta la vita del battezzato, in ogni istante, in ogni sua espressione (Paolo VI, Costituzione Apostolica Paenitemini, 17 febbraio 1966, I).

 

 

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