L'infelicità del nostro tempo

Per i giovani, ma anche per i meno giovani, una sorgente imprescindibile di emozioni intense sono le storie sentimentali «dove fondamentale è creare un clima di continua sorpresa, perennemente nuovo». 

E «nell’immaginario diffuso l’incanto è legato al fare sesso - emozione per eccellenza – che si vuole piacevolissimo, senza intoppi e fatica e libero dall’impegno di costruire e rilanciare la relazione. Tutto così facile e bello come in tv o nei film» (G. Brighina, La verità del desiderio, pro manuscripto). Non di rado, anche la religione viene coltivata se e finché produce emozioni, cosicché, al supermarket del sacro, viene assemblata una propria religione fai-da-te, vengono presi nelle religioni quegli aspetti, riti e tecniche che producono vibrazioni interiori. L’uso delle sostanze stupefacenti nasce spesso come risposta a un desiderio di emozioni molto intense, di sensazioni esaltanti, di stati di dissoluzione dell’io in un flusso di emozioni. Insomma, l’homo sentiens cerca di conseguire un rapporto sensitivo col mondo, che è considerato «una sorgente di emozioni da vivere» i cui costituenti ultimi «non sono atomi di materia, ma particelle emozionali», cosicché esiste solo o quasi ciò che è sentito. Molto spesso l’uomo contemporaneo va in cerca di vibrazioni emotive, cerca di alimentare delle continue e sempre più intense emozioni, il suo valore-fine è essere emozionato: «essere significa sentire», sentio ergo sum. Il  suo imperativo morale è: «libera le tue emozioni». Così, se l’eroe morale greco-medievale era l’uomo virtuoso capace di armonizzate gli affetti e la ragione, quello contemporaneo è il sensation-seeker, che vuole liberarsi dalla ragione. Dunque oggi è pressoché impossibile promuovere una vita virtuosa se non si dissipa l’idea dell’antinomia tra vita buona e spontaneità, tra virtù e felicità, tra virtù ed emozioni. Alcuni autori hanno rilevato, nelle società in cui lo standard di qualità della vita è più elevato, l’esistenza di alcuni indici di infelicità: ad esempio la crisi delle famiglie, certamente favorita da una legislazione differente da quella del passato, ma anche, a nostro avviso, espressione del fatto che molti uomini non trovano più nel matrimonio e nella famiglia uno dei luoghi possibili della propria realizzazione e della propria felicità (T. Melendo Granados, La chiave della felicità, in “Fogli”, 277 (2000), pp.4-5). L’aumento dei casi di patologie psichiatriche, molte delle quali (dicono gli psicologi) sono prodotte da una sorta di rassegnazione e di profonda delusione nei confronti della vita; il ricorso indiscriminato, come surrogati della felicità, al sesso e alla droga; l’aumento dei suicidi: nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno. La felicità è un sentimento interiore di gaudio, di intima esultanza, di gioia e l’uomo la sperimenta di rado e per breve tempo; però può almeno più durevolmente sperimentare un sentimento di contentezza. Essa va distinta dal piacere corporeo, che è invece una sensazione corporea di gratificazione, che noi esperiamo quando qualche esigenza corporeo-vitale viene soddisfatta. Che il piacere sia diverso dalla felicità lo si può comprendere intuitivamente anche solo mostrando che l’uno può esistere senza l’altra: per esempio, posso provare piacere, perché gusto un buon piatto, perché faccio una nuotata tonificante, ecc., e nondimeno sentirmi interiormente infelice. Ora, per comprendere quale sia la strada per conseguire la felicità (o almeno la contentezza), prendiamo le mosse dal suo opposto: l’infelicità. Quest’ultima è una condizione di solitudine durevole e continuativa: un uomo realmente e continuamente (non solo temporaneamente) solo è un uomo tremendamente infelice. Certo, abbiamo bisogno di alcuni momenti in cui stare da soli, ma un uomo che non intrattiene relazioni significative con nessuno è un uomo terribilmente infelice. Ci sono persone sole che vivono in pace con se stesse, ma la loro non è realmente una condizione di felicità bensì solo assenza del negativo, di equilibrio, di assenza di turbamento (l’atarassia a cui anelevano gli stoici antichi), di eliminazione delle possibili ferite che derivano dal rapporto con gli altri, ma non di gioia. Infatti non si può essere felici da soli, perché l’uomo è un essere sociale. L’uomo è un essere sociale, dunque per essere felice bisogna sentirsi amati; ma ciò non basta per estinguere la solitudine. Per eliminare la solitudine non basta nemmeno vivere in mezzo agli altri, perché si può restare soli anche in mezzo a una folla o ad un’adunata oceanica se le relazioni con gli altri sono superficiali. Per rimediare alla solitudine bisogna entrare in comunione con gli altri, partecipare a loro la nostra vita e partecipare alla loro vita. Ora, ciò è reso possibile dall’amore. Infatti, esso è: una forza estatica, che cioè ci fa fuoriuscire da noi stessi, ci proietta verso gli altri, ci fa spostare il nostro baricentro vitale presso gli altri e ci fa “dimorare” presso di loro; una forza unitiva, che cioè realizza l’immedesimazione con gli altri, ci fa entrare in comunione con loro, ci fa vivere la loro vita, ci fa provare le stesse gioie e gli stessi dolori. (Per un’indagine sull’amore cfr. G. Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp.39-88 e T. Melendo Granados, Otto lezioni sull’amore umano, tr. it. Ares, Milano 1998). Insomma, se l’infelicità consiste nella solitudine, la felicità, che è l’opposto dell’infelicità, deve coincidere con l’opposto della solitudine, pertanto con una condizione di comunione interpersonale, che è possibile instaurare mediante l’amore.

 

di Don Salvatore Rinaldi

Rubrica "Fede e Società"

Scrivi commento

Commenti: 0