Figlio di Dio e figlio di Maria

Non è difficile credere che un ruolo centrale, come per ogni altro bambino, l’abbia svolto sua madre; il suo sguardo, le sue cure, lo scambio e il legame costruito con lei, fin dai primi istanti della sua esistenza terrena. 

Dai vangeli dell’infanzia molto poco ci è dato di sapere, se non che Maria «custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,51). Possiamo supporre che lo sguardo di Maria, posato amorevolmente su quel figlio così speciale che «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52), sia stato verosimilmente riflessivo, fin dal principio percorso da stupore e costante pensosità; ancor più di quello di ogni madre, attentamente rivolto a cogliere il senso della propria vita e di quella preziosa e incerta del proprio bambino, da proteggere e accompagnare. Si può immaginare che si sia trattato di uno sguardo responsabilmente affidabile, una presenza certa e necessariamente aperta al mistero, a possibilità impensate e alla libertà; un volto di fiducia e speranza, al tempo stesso abitato da dubbi e interrogativi; implicitamente ed esplicitamente proteso all’ulteriorità, alla trascendenza; espressione di un’intima e peculiare relazione con Dio, alla quale affidarsi sempre e a cui consegnare le infinite domande circa l’ineffabilità di quella filiazione divina, dal suo concepimento fino al misterioso destino di una regalità non priva di ombre, contraddizioni e dolore, così come annunciato dall’angelo e profetizzato da Simeone (cfr. Lc 2,34-35). Altri incontri e relazioni avranno poi contribuito in modo senz’altro significativo a formare la coscienza e la dimensione spirituale di Gesù fin dall’infanzia e dalla giovinezza (M. Gronchi, Trattato su Gesù Cristo figlio di Dio salvatore, Queriniana, Brescia 2008, pp. 115-140). «In quanto uomo, egli non vive in un’altra onniscienza, ma è radicato in una storia concreta, in un luogo e in un tempo, nelle varie fasi della vita umana, e da ciò riceve la forma concreta del suo sapere. Così appare qui, in modo molto chiaro, che egli ha pensato e imparato in maniera umana». (J. Ratzinger – Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli – LEV, Milano – Città del Vaticano 2012, 146-147). Da questa condizione di Figlio, che viene dal Padre e conosce il Padre (cfr. Gv 5,36-37), Gesù si volge agli uomini portando nel suo sguardo, nei suoi gesti, nella parola, nella sua intera persona, il segno dell’amore incondizionato di Dio per ciascun uomo e l’intero creato (cfr. Gv 3,16). Gesù è la via (cfr. Gv 14,6), la forma incarnata con cui l’amore del Padre incontra i suoi figli: occhi negli occhi, carne con la carne. Un amore che riconosce, comprende, risana, salva, rinnova e libera. L’incontro con Cristo, apre alla possibilità di una più autentica comprensione di sé, dell’altro, di Dio e del mondo, a nuovi sentieri e orizzonti per l’esistenza dell’uomo. In un mondo feriale, nella cultura del suo tempo, Gesù porta un nuovo sguardo, propone una nuova narrazione, un “lieto annuncio”, che dischiude rinnovate dimensioni di vita per il regno del Padre. Pare crearsi una discontinuità, un’occasione di revisione o di nuova visione; una reciproca intuizione di sé per una più intima consapevolezza, in un’interazione tratteggiata spesso da poche, incisive parole. In brevi passaggi si vive un incontro che mentre accoglie e comprende, risana e suggerisce un nuovo cammino, riapre percorsi interiori e con gli altri, così accade alla samaritana, al cieco nato, a Nicodemo, a Zaccheo, a tante persone incontrate, toccate, guarite. Persone colte nella loro quotidianità, nei loro bisogni essenziali, che in modi diversi intuiscono l’eccezionalità del momento, della persona Gesù. In qualche caso i Vangeli testimoniano anche di relazioni che non decollano, che mantengono il sapore di una frizione più che di un’apertura, per le quali non si realizza il momento dell’incontro. Pensiamo al giovane ricco, ai compaesani di Nazareth, agli scribi, ai farisei, a uno dei ladroni sulla croce. Anche dopo la Pasqua Gesù, davvero “Signore delle relazioni”, si rivela come amore che vince la morte, facendosi riconoscere in intensi momenti di incontro con gli apostoli e i discepoli, con Maria Maddalena, con i discepoli di Emmaus. Ed è proprio questa categoria dell’intersoggettività che continua a caratterizzare la spiritualità e la fede dei cristiani di oggi, ai quali non è dato certamente di vedere e toccare il Figlio di Dio come ai suoi contemporanei, ma che continuano a sperimentare a la sua presenza viva, che ama e rinnova la vita di ciascuno, in modo personale e in una dimensione di comunione. Ancora oggi riceviamo la fede come un dono, trasmesso per grazia dallo Spirito, specialmente attraverso momenti di incontro che ci consentono di percepire la forza di un amore avvolgente e penetrante in cui si dischiude e si rinnova la verità di noi stessi. L’annuncio del vangelo da parte della chiesa si incarna nei tempi della storia e nei diversi luoghi del mondo, servendosi di testimoni: uomini e donne che riconoscono nella loro vita l’amore di Gesù e ripropongono l’occasione di un incontro che riconosce e ama ciascuno nella sua più complessa e autentica realtà, soprattutto nella sua più segreta vulnerabilità. Più facilmente i semi della fede possono radicarsi nel cuore di ognuno, fin dalla più tenera infanzia, o accendersi nelle più diverse stagioni della vita, quando percepiamo che tale amore ci tocca e ci riconosce interiormente, ci soccorre e ci comprende, ci accoglie nei nostri limiti o ai margini della nostra esistenza e ci offre speranza di salvezza, curando le nostre ferite più dolorose. L’esperienza personale dell’incontro col Salvatore non rimane una vicenda individuale di natura intimistica, ma illumina e si illumina nelle nostre relazioni.

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