Incarnato come Signore e servo della relazione

Se si leggono i Vangeli con l’intento di cogliere il modo in cui Gesù si relaziona con le persone con cui viene a contatto, si resta colpiti sia dalla sua decisione che dalla semplicità e immediatezza del suo stile. Da un lato, infatti, Gesù è sempre il protagonista delle relazioni che vive, e sa restare se stesso senza mai mettersi delle maschere o fingersi diverso da quello che è.

Dall’altro, però, sa anche adattarsi alle persone che incontra, per venire incontro alla loro situazione e favorire così il loro cammino verso di lui. Possiamo dire, quindi, che Gesù è Signore delle relazioni, nel senso che egli ne è il protagonista: non però con uno stile impositivo, che uniforma e opprime le persone, bensì con una straordinaria capacità di entrare in dialogo con la loro storia e con la loro libertà per farle crescere nella relazione con lui. Anche nelle relazioni egli è Maestro e il Signore, ma nello stesso tempo il Servo che sa far vivere in modo più pieno le persone con cui entra in rapporto (Mc 10,42-45). Gesù si propone come unico maestro, come unico modello a cui occorre continuamente uniformarsi, in modo particolare portando la propria croce insieme con lui per condividere la sua fedeltà al Padre. Come dunque Gesù vive per Dio, così chiede ai suoi discepoli di vivere per lui. Gesù chiede a persone adulte, che hanno pure già una loro identità ben definita, di rimetterla in discussione, di dare una risposta nuova e inedita alla domanda «Chi sono io?» e di fare questo proprio a partire dalla loro relazione con lui. Il loro essere discepoli, non è, quindi, una delle tante attività della loro vita, ma la dinamica fondamentale che determina tutte le altre. La loro relazione con il Signore non si affianca semplicemente alle altre, ma rappresenta quella fondativa della loro identità. Essi possono rinunciare ad altre relazioni, pure molto importanti, per seguirlo, non smarrendo la loro vita, ma, anzi, trovando il centuplo e la vita eterna (Mc 10,29-30). Gesù pone queste esigenze radicali ai suoi discepoli semplicemente per l’amore che nutre per loro, cioè affinché possano vivere in pienezza. Nella sequela radicale del Signore, essi sperimentano ­- per quanto possibile in questo mondo - la logica del regno di Dio, anzi in qualche modo ne sono resi partecipi. Essi vivono anticipatamente qualcosa di quella condizione di vita piena e definitiva alla quale Dio ha destinato sin dal principio l’umanità intera e, più ampiamente, tutta la creazione. Anche se Gesù ha uno stile di grande trasparenza, tuttavia la sua persona resta ultimamente un mistero per i suoi discepoli. Non solo non capiscono la sua logica di umile obbedienza al disegno del Padre, ma egli si manifesta ad alcuni di loro nella trasfigurazione in una forma gloriosa non descrivibile dalle parole umane (Mc 9,2-10). La sua persona, insomma, sta davanti ai suoi discepoli come un enigma, non perché egli voglia nascondersi, ma perche la loro capacità di comprenderlo è sempre inadeguata rispetto alla realtà effettiva della sua persona. Questo fa sì che la relazione dei discepoli con Gesù sia un cammino che non finisce mai, neppure dopo la resurrezione: il Risorto, infatti, continua a rimproverarli per la loro incredulità (Mc 16,1-14), come faceva durante il suo cammino terreno. Se la sua persona potesse essere pienamente comprensibile, seppure dopo un lungo percorso, a quel punto non ci sarebbe più ragione di seguirlo. Gesù non avrebbe più nulla da dirci e da donarci come Maestro e Signore. Solo in quanto egli è Figlio non cessa di porsi davanti a noi come l’unico, vero e inesauribile mistero, che non cessa di accendere nel nostro cuore nel modo più intenso quel radicale e profondo desiderio dell’alterità che si chiama amore. Oggi vi è il bisogno di mettere in primo piano la vicenda umana del Signore, per mostrate la profonda sintonia tra l’esperienza cristiana e quella umana. In un tempo in cui la Chiesa cerca di aiutare la società e la cultura a rifondare un nuovo umanesimo, è di capitale importanza che il cuore della fede cristiana, l’evento cristologico, non sia frainteso come qualcosa di eterogeneo rispetto alla vita ordinaria delle persone. Il cristianesimo non sia riconducibile esclusivamente a un umanesimo, ma rappresenti la via per accedere a quella conformazione al Figlio unigenito e a una relazione filiale con Dio che va ben oltre quanto è solo umanamente auspicabile per l’esistenza umana. Dopo secoli di accentuazione unilaterale della sua divinità a scapito della sua umanità, occorre stare attenti a cadere nel rischio opposto, e a non scambiare il Figlio diletto che ci rende figli di Dio e ci introduce nella vita eterna con un vecchio amico con cui ci si relaziona sempre volentieri, ma che pure non ha più nulla di nuovo da dirci.

 

Articolo di martedì 02/01/2017

Rubrica "Fede e Società"

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