Servire al tavolo di Dio

«Se uno mi vuole seguire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore» (Gv 12,26). Le parole del Vangelo sono la risposta di Gesù dopo che gli fu riferito che dei pellegrini greci volevano vederlo. 

Queste persone erano spinte della sete del Dio vivente. Le divinità della Grecia, che da tempo avevano perso la loro credibilità, per loro non potevano avere più nessun significato, ma anche il dio dei filosofi, per quanto grande ed elevato fosse concepito, era tuttavia soltanto un pensiero umano, un tentativo di avanzare fino ai limiti estremi del pensabile, di giungere fin dentro il mistero dell’infinito. Ma essi non avevano bisogno di un dio escogitato, di un prodotto della nostra mente, essi cercavano il Dio vivo che è la Verità, che manifesta se stesso come il Vivente e illumina la nostra mente e i nostri cuori. Nella Sacra Scrittura si legge, che molti erano quelli che andavano e venivano da Gesù, tanto che lui non aveva neanche il tempo di mangiare. Così Gesù decide di allontanarsi per cercare un luogo deserto. Prende il largo su una barca. Ma le persone capiscono e percorrono la riva a piedi e, prima ancora che Gesù sia giunto con la barca, loro sono già sulla riva ad aspettarlo. Quando arriva, trova esattamente quelli ai quali poco prima aveva voluto sottrarsi. E accade qualcosa di magnifico: non si arrabbia, non impreca, come probabilmente avrebbe fatto qualsiasi altra persona, ma vedendoli ha compassione di loro. Vede il loro profondo, segreto bisogno d’aiuto per cui gli corrono dietro, e per cui il giorno dopo però sarebbero corsi dietro a un altro che avrebbe promesso loro di più e apparentemente di meglio. Ed è bellissima l’espressione di Marco: «Ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34). Questa è come un’istantanea dell’umanità in generale. Se oggi qualcuno da un’altra stella giungesse in questo mondo e potesse, per così dire, abbracciarlo esteriormente e interiormente con un solo sguardo, non potrebbe meglio descrivere l’umanità che con quest’unica parola: sono come pecore che non hanno pastore. Oggi l’umanità non sa più cosa sia giusto e cosa non lo sia, cosa uno debba fare e cosa non fare, cosa sia lecito e cosa invece precluso all’uomo. L’uomo ha perso l’orientamento; altrimenti non sarebbe possibile che oggi ogni astrologo, ogni divinatore, ogni guaritore trovi il proprio docile pubblico, né che ogni capo di setta raggruppi intorno a sé un qualche seguito. “Sono come pecore senza pastore”. Il Signore vede questo, lo vede innanzitutto in quei palestinesi sulla riva del lago di Gennésaret, ma per mezzo di loro e attraverso i millenni lo vede anche nell’umanità di oggi, vede anche questa umanità di oggi e ne ha compassione; perché lui è il pastore, l’unico vero pastore, il Buon Pastore. «Il Buon Pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11); essere pastore con Cristo significa prendere parte al sacrificio della vita fatto da Gesù Cristo; essere pastore con Cristo significa essere un uomo che so dà, uno che non vuole più niente per se stesso, ma che, per amore di Dio, fa tutto per Dio e per il prossimo. Nel Vangelo del Giovedì Santo, quando il Signore si alza in mezzo ai suoi discepoli, si cinge un asciugamano intorno alla vita e lui, il Figlio di Dio, lava loro i piedi. Sant’Agostino ci dice che proprio questo è il modello di ciò che deve fare il sacerdote: quasi ogni giorno nel confessionale deve ascoltare i peccati e la sporcizia dell’umanità e per mezzo della grazia di Dio gli è concesso, con l’assoluzione, di lavare sempre di nuovo i piedi sporchi di questo mondo e di questi uomini. Egli è il servo dei servi di Dio anche per il resto della sua giornata; perché chiunque abbia un bisogno o una pena può e deve andare dal sacerdote. E anche nel suo compito supremo, nella celebrazione della Santa Eucarestia, il sacerdote in realtà non è un privilegiato, ma celebra la Santa Messa per essere colui che serve al vostro tavolo.  È come colui che serve al tavolo di Dio, come colui che apparecchia per voi il tavolo della mensa divina. Sì, credo che si debba dire che il sacerdote non và più facilmente degli altri in Paradiso, semmai più difficilmente. Perché molto meno di chiunque altro può arrivarvi da solo. Gli sarà chiesto conto degli altri, di tutti quelli che erano affidati alla sua cura e al suo amore di pastore. Il sacerdote è un uomo che benedice, il sacerdote è però anche pastore con Cristo Pastore, e questo significa che deve prendere parte al sacrificio della vita fatto da Gesù Cristo. Questo è un compito molto, molto difficile, un compito che, visto dal di fuori, è quasi troppo difficile per un uomo, e nessuno da solo potrebbe avere l’ardire di assumere questo compito da sé, se Dio non lo chiamasse e se lui non sapesse che tutti gli altri lo aiuteranno a svolgerlo, che è sostenuto dalla sollecitudine dell’intera moltitudine dei fedeli. L’uomo non vive di solo pane ma di qualcosa di più, penso che oggi possiamo addirittura vederlo. Sempre di più ci sono persone che hanno tutto quello che desiderano, che hanno abbastanza soldi per vestirsi e per mangiare come vogliono e che tuttavia un certo giorno la fanno finita: “non riesco più a vivere”, dicono, “non ce la faccio più, non ha più senso”. È qui che si vede che l’uomo ha bisogno di qualcosa di più del pane, che c’è in lui una fame più profonda, la fame di Dio che può essere saziata dalla Parola di Dio. L’Eucarestia non è una cena nella quale si distribuisce qualcosa, ma è presenza di questo passaggio dallo Spirito datore di vita, è presenza di questo dinamismo dell’accesso al Padre. È il Signore che apre la porta, come dice la Lettera agli Ebrei: è solo entrando in questo grande atto di adorazione nel quale il mondo deve essere trasformato nell’amore che possiamo partecipare adeguatamente al Mistero eucaristico. Il Mistero eucaristico ha questa ricchezza: non è soltanto la trasformazione del pane e del vino, ma la nostra trasformazione e la trasformazione del mondo in ostia vivente. Mangiare questo nuovo cibo non significa mangiare una cosa qualunque, è un incontro del mio io con l’io del Figlio di Dio, è una comunione da cuore a cuore. La comunione eucaristica non è una cosa esteriore: la comunione col Figlio di Dio che si dà nell’ostia è un incontro con il Figlio di Dio e perciò è un comunicare e un adorare. Possiamo riceverlo solo adorando, solo in quanto apriamo tutta la nostra esistenza alla sua presenza. Solo in quanto ci apriamo, egli diventa la forza della nostra vita. Come è possibile che Gesù diventi cibo, che possiamo mangiare Gesù? È possibile soltanto perché, nell’atto dell’amore fino alla morte di croce e nella Risurrezione si è trasformato in un essere che vive nello Spirito datore di vita, come dice san Paolo. Nella croce, nella auto donazione, nella Risurrezione è divenuto Spirito datore di vita e così è Sacramento per noi. La lettera agli Ebrei ci dice che l’incarnazione si realizza in un dialogo tra Padre e Figlio. Il Figlio dice; «Sacrifici non hai voluto, ma un corpo mi hai preparato, ecco io vengo» (Eb 10,5-7). Il questa parola è riassunta tutta la vita di Gesù: è la parola dell’incarnazione e della crocifissione insieme. Mi hai dato un corpo, ecco io vengo. È la parola sacerdotale, è la vita di Cristo. È quando riceviamo l’ordinazione sacerdotale noi uomini presi dagli uomini entriamo in questa parola, e diciamo: “ Un corpo mi hai preparato, ecco io vengo, non voglio dare qualcosa, una parte o l’altra; un corpo mi hai preparato, voglio dare me stesso, ecco io vengo”.

 

 

di Don Salvatore Rinaldi

Rubrica "Fede e Società"

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