Frustrazione della sterilità?

Il figlio adottato non può mai essere cercato come terapia di una coppia in difficoltà relazionali o come sostitutivo surrogatorio di un figlio immaginato e mancato. L’adozione rappresenta la risposta a un bisogno primario del bambino, quello di essere accolto ed educato in una relazione di persone strutturata come famiglia. 

L’adozione è risposta ad un appello: un bambino solo attende di trovare una famiglia che lo accolga come figlio. La dinamica dell’adozione è una dinamica di accoglienza e, pertanto, l’antropologia dell’adozione si presenta essenzialmente come una declinazione dell’antropologia del dono: la persona può essere accolta in modo degno soltanto se è accolta come un dono e questo comporta che coloro che ricevono il dono si pongano in un atteggiamento di totale e incondizionata gratuità. Il bambino adottato porta con sé, consapevolmente o meno, un vuoto. Questo vuoto può dipendere da circostanze tragiche, come la morte dei genitori, o da situazioni difficili, come l’incapacità o l’impossibilità o la non volontà di prendersi cura di lui. Certamente un neonato non può fare esperienza di abbandono nel senso in cui può farla un bambino più grande, ma è altrettanto certo che spesso egli non è stato atteso, toccato, guardato, accudito come neonato accolto dai suoi genitori. Si stanno accumulando conoscenze nuove sulle percezioni del bimbo prima della nascita: si tratta non solo della percezione di stimoli sensoriali soprattutto uditivi che gli giungono dalla madre e dal mondo esterno, ma anche della percezione di emozioni provenienti dalla madre attraverso modificazioni fisiologiche e mediatori chimici di natura ormonale. Non è infondato ipotizzare che nel neonato che ha subito un abbandono precoce restino tracce profondamente impresse nella sua mente, tali da condizionare il suo futuro, la sua reattività, le sue relazioni, la sua autocoscienza. I bambini rimasti soli, perché volontariamente abbandonati o forzatamente separati dai genitori o rimasti orfani, vivono sentimenti di ansia e di debolezza che derivano dalla percezione della propria insicurezza e precarietà. Mancano figure adulte di riferimento sulle quali appoggiarsi e nelle quali trovare sicurezza. Un figlio che non è più un figlio perché non ha genitori sperimenta la frustrazione di una promessa tradita e fa l’esperienza devastante dell’impossibilità di fidarsi. Sullo sfondo aleggia una domanda: perché, perché questo male su di me? E un dubbio angoscioso: forse è colpa mia, forse ho fatto qualcosa per meritarmi questo abbandono. L’amore umano può diventare fecondo sia nella forma della generazione, sia nella forma dell’adozione. Generazione e adozione, se viste nella prospettiva dell’accoglienza, sono legate da un rapporto più stretto della semplice analogia. L’esperienza che fanno i genitori adottivi è di essere genitori in senso pieno e non in senso semplicemente analogico: il padre e la madre sono coloro che attendono il figlio, lo accolgono e lo accompagnano nel cammino nel mondo; padre e madre sono coloro che si prendono cura del figlio con dedizione e premura. Essere genitori significa, in una parola, amare il proprio figlio e la genitorialità si attua nel tempo amando i figli giorno dopo giorno accogliendoli non per come vorremmo, ma per come sono. Non è facile elaborare il lutto per la fecondità mancata, eppure questo percorso deve essere fatto perché solo se la coppia ha superato la frustrazione della sterilità è possibile accogliere un bambino secondo una logica di genuina gratuità. Il figlio non può essere preteso dalla coppia sterile come un diritto da realizzare a tutti i costi e con tutti i mezzi perché si ha diritto solo alle cose e non alle persone.

 

di don Salvatore Rinaldi

Rubrica "Fede e Società"

Articolo di Lunedì 5 Marzo 2018

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