Il silenzio di Dio?

Sulla preghiera di domanda c’è spesso molta confusione, anche tra i credenti. Ci sono soprattutto due atteggiamenti contrapposti: da una parte, alcuni, che si ritengono “moderni” e “secolarizzati”, la ritengono inutile, o per lo meno inopportuna, perché dicono che tutta la responsabilità nelle cose di questo mondo spetta all’uomo che deve ricorrere alle sue conoscenze e, oggi in particolare, alle meraviglie della tecnica. 

Dio, in queste cose, diventa un inutile “tappabuchi”! Da un’altra parte ci sono credenti, tacciati per lo più come “tradizionalisti”, che per ogni inezia, ad esempio un esame a scuola, una malattia, un posto di lavoro e, in definitiva, per infinite esigenze quotidiane ricorrono a Dio e quasi quasi pretendono il suo intervento, con una mentalità, per così dire, commerciale del “do ut des”, ovvero: se io faccio questo, tu mi devi quest’altro! Entrambi gli atteggiamenti sono “umani troppo umani”, peccato di arroganza umana. È possibile però una terza via? E Gesù stesso, di fronte alla estrema difficoltà della sua esistenza, si rivolge al Padre chiedendo: «Passi da me questo calice», ma subito aggiunge: «Però non la mia, ma la tua volontà sia fatta». E proprio in questa preghiera di domanda, così intensa e così umanamente concreta, troviamo la risposta: troviamo l’equilibrio tra i due atteggiamenti sopra accennati nei loro umani limiti. Nel Padre nostro, la preghiera “normativa” per ogni cristiano, non si chiede di tutto. Per esempio, non si chiede di vivere a lungo, né si domanda la guarigione dei malati, né di avere un ricco raccolto e neppure il dono della pace. Si invoca la venuta del regno di Dio e nient’altro. Sull’avvento del regno di Dio: non si tratta di un mondo ultraterreno, ma di quello in cui viviamo; non è un aldilà, ma l’aldiquà, non è il cielo, ma la terra. Benché sia diverso dalle società di questo mondo (cfr. Gv 18,36), il regno di Dio non si riduce a qualcosa di invisibile e neppure a una sfera interiore, ma comprende tutte le dimensioni della realtà che devono essere poste sotto la signoria di Dio: anima e corpo, salute e malattia, ricchezza e povertà, famiglia e società. Se è così, possiamo chiedere anche le “cose terrene”, in quanto servono al regno di Dio. Certo, non ciò che è insensato o cattivo. Noi siamo liberi di chiedere tutto ciò di cui abbiamo bisogno, sapendo che ci rivolgiamo a un Padre che vuole il nostro bene, la nostra felicità. E il Signore è libero di risponderci come vuole, “da Dio”, in sintonia con il suo piano salvifico, anche diversamente e oltre le nostre attese. Così riconosciamo umilmente che Dio è più grande di noi e vede più di noi. Infinitamente di più. La preghiera ottiene tutto, ma quando ci rivolgiamo al Signore siamo chiamati a entrare progressivamente nella sua prospettiva, assumendo i suoi criteri e la sua “mentalità”, fino a convertire i nostri desideri e le nostre richieste. Ciò esige una costante purificazione ed evangelizzazione della nostra preghiera: occorre discernere sempre meglio i veri bisogni, crescere nella conoscenza del Signore e convertirci costantemente alla volontà di Dio espressa nella sua Parola. Quel tale viene a sapere che il re in persona desidera riceverlo in udienza. È l’occasione della vita: potrà esporgli a viva voce le sue petizioni, chiedere ciò che gli sta a cuore, sicuro che gli verrà concesso. Arriva il giorno fissato: il buon uomo, emozionatissimo, entra alla presenza del re, e che cosa chiede? Un quintale di letame per i suoi campi! È il massimo che riesce a desiderare. Noi possiamo correre lo stesso rischio: non avendo l’animo di figli, invece di chiedergli quello che il suo cuore di Padre può darci, gli domandiamo solo ciò che la nostra povera mente è capace di immaginare. E finiamo di perdere, ogni volta, l’occasione della vita. Dietrich Bonhoeffer scrive: «Tutto ciò che noi dobbiamo chiedere a Dio e dobbiamo attendere da lui si trova in Gesù Cristo. Occorre cercare di introdurci nella vita, nelle parole, negli atti, nelle sofferenze, nella morte di Gesù, per riconoscere ciò che Dio ha promesso e realizza sempre per noi. Dio infatti non realizza tutti i nostri desideri, ma realizza le sue promesse». Durante la nostra vita di credenti, nella preghiera che rivolgiamo al Signore, diverse volte facciamo l’esperienza vissuta da Giobbe: «Io grido a te, ma tu non mi rispondi». Il silenzio è il massimo di comunicazione che si realizza tra due persone che si amano. Arriva il momento infatti in cui le parole cessano da se stesse per una comunicazione non verbale, ma profondamente intima, cordiale. Teologicamente, il silenzio di Dio ricorda che la preghiera è strettamente legata alla fede. E, siccome quest’ultima è legata a una realtà che è e resta invisibile, la preghiera, eloquenza della fede, sarà sempre un dialogo con un’assenza sensibile, che diventa presenza soltanto per la fede, atteggiamento fondamentale dell’esistenza cristiana che porta a credere e ad affermare che il Dio al quale i credenti si rivolgono è un Tu personale, che ascolta, ama e si prende cura. Dal punto di vista dell’esperienza spirituale, infine, il silenzio di Dio diventa spesse volte motivo di crescita, perché fortifica la nostra volontà, mette a fuoco le nostre responsabilità, svelandoci nel nostro intimo realtà la cui profondità non era stata motivo di doverosa e profonda riflessione. Fa tacere inoltre le nostre parole, frutto molte volte della centralità del nostro io, direzionandoci verso Dio, il cui ascolto si rivela più importante di tanti nostri discorsi. Il silenzio di Dio, infine, purifica la stessa nostra preghiera perché ci invita a cercare e a rivolgersi al Signore perché appunto Signore, al quale esprimiamo i nostri desideri – perché l’uomo è essere di desiderio – al di là di ogni esaudimento di richieste concrete. La preghiera esprime così il nostro puro amore di Dio, senza alcuna pretesa di influenzarlo e, meno che mai, costringerlo, e senza attendere ricompense perché noi cerchiamo lui e non qualcosa da lui. Per questo, seguiamo san Francesco Saverio che pregava Dio, dicendogli: «se io ti amo, mio Dio e Signore, tu lo sai non è per il Cielo che mi hai promesso. Se temo di offenderti non è per l’inferno che meriterei. Ciò che mi attira verso te, sei tu, sei tu solo. […] E il tuo nome per me si è totalmente impossessato del mio cuore, che se anche non vi fosse il Cielo, ti amerei, anche se non vi fosse l’inferno, ti amerei. Tu non hai nulla da donarmi per provocare il mio cuore, perché anche se non sperassi quello che spero, ti amerei ugualmente, come ti amo!». 

 

di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 23 Luglio 2018

Rubrica "Fede e Società"

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