Le carezze come medicina

 Il 3 marzo 2018 papa Francesco ha parlato ai membri della Federazione degli infermieristici.

Il Pontefice sottolinea quali siano i compiti fondamentali della professione infermieristica: «Promuovere la salute, prevenire la malattia, ristabilire la salute e alleviare la sofferenza» e di come questi quattro capisaldi necessitino di una grande professionalità per poter essere applicati.

In seguito il Papa aggiunge: “Questa professionalità, però, non si manifesta solo in ambito tecnico, ma anche forse ancor più nella sfera delle relazioni umane. Stando a contatto con i medici e con i familiari, oltre che con i malati, diventate negli ospedali, nei luoghi di cura e nelle case il crocevia di mille relazioni, che richiedono attenzione, competenza e confronto. Ed è proprio in questa sintesi di capacità tecniche e sensibilità umana che si manifesta in pieno il valore e la preziosità del vostro lavoro”. Bellissima immagine: crocevia e perno attorno al quale si sviluppano e producono salute e guarigione. Quindi un modo di vivere le relazioni che le considera sanati e che richiedono molta cura, capacità di ascolto, di attenzione, competenza e confronto. Non ci si improvvisa, si deve imparare a creare e vivere relazioni che siano realmente terapeutiche, in grado di produrre salute e benessere negli altri. In un altro passo il Papa sottolinea l’importanza di saper leggere le situazioni per poter porre realmente al centro la persona con la sua unicità ed originalità e non i protocolli e le prassi che, pur utili, non possono leggere bisogni e necessità differenti ed unici. Il papa dice: “Prendendovi cura di donne e di uomini, di bambini e anziani, in ogni fase della loro vita, dalla nascita alla morte, siete impegnati in un continuo ascolto, teso a comprendere quali siano le esigenze di quel malato, nella fase che sta attraversando. Davanti alla singorilità di ogni situazione, infatti, non è mai abbastanza seguire un protocollo, ma si richiede un continuo - e faticoso! – sforzo di discernimento e di attenzione alla singola persona. Tutto questo fa della vostra professione una vera e propria missione, e di voi degli “esperti in umanità”, chiamati ad assolvere un compito insostituibile di umanizzazione in una società distratta. Che troppo spesso lascia ai margini le persone più deboli, interessandosi solo di chi “vale”, o risponde a criteri di efficienza o di guadagno”. E cosi, piano piano, si diventa esperti di quella che il Papa chiama “la medicina delle carezze”, la capacità di gesti di vicinanza, di tenerezza, che restituiscono dignità. Non è la carezza pietistica di chi dice “Poverino!”, è la carezza di una madre che esprime amore totalitario, di un amante che esprime passione, di un amico che sprigiona il riconoscimento dell’identità dell’altro e la ama incondizionatamente. Così si esprime papa Francesco: “Non dimenticatevi della “medicina delle carezze”: è tanto importante! Una carezza, un sorriso, è pieno di significato per il malato. È semplice il gesto, ma lo porta su, si sente accompagnato, sente vicina la guarigione, si sente persona, non un numero. Non dimenticatelo”. Non dimenticatelo nel corso della carriera, lungo i turni massacranti, davanti all’indifferenza, alle difficoltà, alla irriconoscenza. Non dimenticate di essere persone umane davanti ad altre persone umane, non dimenticate il valore dei gesti, dei sorrisi, delle carezze, anche quando costano, soprattutto quando costano. “Stando con i malati ed esercitando la vostra professione, voi stessi toccate i malati e, più di ogni altro, vi prendete cura del loro corpo. Quando lo fate, ricordate come Gesù tocco il lebbroso: in maniera non distratta, indifferente o infastidita, ma attenta e amorevole, che lo fece sentire rispettato e accudito. Facendo così, il contatto che si stabilisce con i pazienti porta loro come un riverbero della vicinanza di Dio Padre, della sua tenerezza per ognuno dei suoi figli. Proprio la tenerezza: la tenerezza è la “chiave” per capire l’ammalato. Con la durezza non si capisce l’ammalato. La tenerezza è la chiave per capirlo, ed è anche una medicina preziosa per la sua guarigione. E la tenerezza passa dal cuore alle mani, passa attraverso un “toccare” le ferite pieno di rispetto e di amore. Meraviglioso questo richiamo ad usare le mani per toccare il tocco di Gesù, per permettere agli altri di leggere nelle nostre mani la tenerezza di Dio, la vicinanza, la dedizione di un Dio, la dedizione di un Dio che si è fatto uomo per poterci amare con la vicinanza di un abbraccio ed una carezza che diventano consolazione e speranza”. Queste parole del papa le possiamo fare nostre in quanto tutti insigniti di una missione che ognuno compie con la sua identità e originalità. Pensiamo alla capacità di infinito che c’è nel nostro cuore. Ciascuno di noi si percepisce come un essere finito e spesso limitato, eppure dentro di noi c’è un sogno infinito, un desiderio di amore che non si può misurare. Nel piccolo particolare della nostra vita vive l’infinito e il tutto. È di certo la traccia di Dio in noi: siamo finiti e piccoli, eppure un segno di eternità è presente e vivente in noi. Da questa presenza impariamo a considerare la vita e il mondo con i criteri di Dio, dalla prospettiva della cura, con la forza della speranza, scegliendo di amare. Nella nostra spiritualità questo ci indica il desiderio di portare Dio ad ogni cuore, di aiutare ad accoglierlo. Si lavora per una nuova umanità e che ogni azione, sia pure piccola, apparentemente senza importanza, feriale, ma fatta con amore e attenzione, contribuisce alla realizzazione del compimento di ciò che tutti desideriamo “essere amati”. È la santità dei piccoli gesti di cui parla il Papa nell’ultima esortazione apostolica Gaudete et exultate. Nella nostra spiritualità l’incarnazione (il Dio si è fatto uomo), diventa educazione al servizio, esempio di comportamento. Riflettiamo insieme: Ho cercato di resisterti, ho accampato discussioni fatte apposta per guadagnare tempo, per portare altrove l’attenzione. Tu mi hai condotto all’essenziale, a quello che conta veramente e ti sei rivelato non solo come un saggio, come un maestro spirituale, o addirittura come un profeta, ma come l’Inviato di Dio, il Messia, il suo Cristo. È toccato anche a me, Signore, ad uno dei pozzi della storia di incontrarti e di riconoscerti come il Salvatore, come l’Unico capace di colmare la mia sete più profonda.

 

Rubrica "Fede e Società"

di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 10 settembre 2018

 

 

 

 

 

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