Le lacrime di Dio fatto uomo

Gli uomini conoscono che ci sono diversi tipi di lacrime: lacrime di gioia, di tenerezza, ma anche lacrime di penitenza, di rabbia, di umiliazione, di abbandono, di malattia, insomma lacrime di sofferenza. Dio è Gesù. Dio è un uomo vero, è veramente uomo, è uomo fino in fondo (certo, non solo). Ma non incontro Gesù Cristo fuori dall’umano.

 

 

Perché la vita che Dio ha scelto per incontrarmi, in Gesù, è l’umano. È l’umanità di Gesù che mi salva: non un motore immobile, trascendente, trascendentemente chiuso nell’alto dei cieli. Non è un Essere perfettissimo, verissimo, irraggiungibilissimo che mi salva. Ma un Dio ferito, amante. Bisognoso. Bisognoso come me di acqua, cibo, vestiti, riparo. Ma soprattutto, come me, bisognoso d’amore. Gesù allora, quando la (Maria) vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Guarda come lo amava!” (Gv 11, 33-35). Gesù “piange” davanti alla morte, opera per eccellenza di Satana, in quanto affligge gli uomini e che egli sente di dover prenderla su di sé per distruggerla. Nei giorni della sua vita terrena (il Figlio) offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek (Eb 5, 7-10). Gesù “piange” davanti all’indurimento del cuore degli uomini di fronte al progetto d’amore di Dio per l’uomo e in previsione delle conseguenze che ne scaturiscono. L’amore del Padre che Gesù incarna con la sua vita e la sua morte è, più che per ogni amore, di una estrema permeabilità al rifiuto dell’amore. Allo spogliamento di un Dio che si dona senza riserve (cfr. Fil 2, 5-7) si oppone l’uomo così pieno di se stesso che non vi è in lui posto che per se stesso. Anche questo è “divino”, ma un divino invertito, pervertito. È l’instaurazione del culto degli idoli, degli “io” che non vedono, non parlano, non camminano (cfr. Sal 113, 5-7), andando così inesorabilmente alla loro autodistruzione e alla distruzione degli altri. Gesù “piange” altresì davanti al destino mortale di quest’uomo. Qui regna un altro “dio”, colui che la tradizione giovannea dice essere “omicida dal principio” e chiama il “padre della menzogna” (cfr. Gv 8,44), colui che odia l’uomo al punto di averlo strappato, per gelosia e con astuzia, alla sua vita originaria e al suo destino di eternità (cfr. Gn 3. 1s). Mai il vero Dio avrebbe voluto lasciare la sua creatura in queste mani di morte. Ma l’uomo stesso ha voluto così e Dio ha dovuto rispettare la libertà data. Il figlio prende atto e “piange” davanti al sepolcro di Lazzaro e, attraverso di lui, dell’uomo, suo amico. Egli – che l’aveva creato così bello (cfr. Gn 1,31) e aveva, per lui, sognato così in grande, destinandolo a occupare con sé il trono del Padre suo (cfr. Ap 3, 21) – lo vede ora ridotto ad un ammasso di carne putrescente e separato per sempre dalle sue origini divine. Quale delusione! Tanto amore, voluto e dimostrato per secoli, per finire nella solitudine di una tomba. Qui non potevano mancare le lacrime del Figlio. Viviamo in un mondo nel quale abbondano ancora lacrime di ogni specie. C’è una differenza tra le lacrime con o senza risposta. Queste ultime sono le più dure da sopportare, per non dire che sono insopportabili. Di fatto, le vere lacrime sono di questo tipo. Perché mi succedono queste o quelle prove di salute, questo o quello handicap fisico o morale, questa o quella rottura affettiva, ecc.? È da notare che Gesù ha vissuto sulla croce un “perché” che riprende e supera tutti i nostri “perché”: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mc 15, 34). Il Figlio conosce le stesse domande, piante, gridate, urlate spesso, come nel caso di Teresa di Lisieux (1897) che, nel momento più intenso della sua “passione”, avverte quanti le stanno intorno di non mettere mai accanto a un malato afflitto da dolori intensi medicine che siano veleni. “Le assicuro – scrive – che basta un solo momento per perdere la ragione, quando si soffre in questo modo. E allora ci si avvelenerebbe con grande facilità”. Una reazione simile da parte di una amica del “Volto Santo” come è stata Teresa, è la prova della sua partecipazione alle lacrime di Gesù, ma nello stesso tempo della sua cura di proteggere gli altri da una debolezza sempre possibile che li farebbe uscire dalla volontà paterna e così non rendere il “culto spirituale” di offrire. Tutti noi siamo diventati “santi” mediante il battesimo. L’indice di santità non dipende dunque da noi; viene dal dono di Dio. Più una missione ecclesiale è grande e importante, più pesante è portare la croce. Gli esempi abbondano. Pensiamo a Giovanni Battista (cfr. Mt 14, 3s). Sapendo questo, bisogna dichiararsi pronti a piangere, gridare, urlare con Gesù come dice la Lettera agli Ebrei , perché ne va della vera gioia degli uomini, quella che solo il Padre può dare perché le lacrime di Gesù che vi danno accesso sono mescolate all’acqua dell’Offerta eterna che è lo Spirito Santo di Dio (cfr. Eb 9, 14). Abramo ha offerto a Dio un figlio mortale che non doveva morire, Dio ha consegnato alla morte per tutti gli uomini un Figlio immortale. ORIGENE

 

di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 17 settembre 2018

Rubrica "Fede e Società"

 

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