San Paolo VI, il Papa che anticipava nel suo “già” il “non ancora” (seconda parte)

La scorsa settimana ci siamo lasciati parlando dell’Humanae Vitae, l’enciclica di Paolo VI che «fece moltissimo clamore e fu segno di contraddizione. L’Humanae vitae, chiamava i Cristiani a resistere all’ondata di sensualità che invadeva il mondo, a rispettare la legge di Dio nel matrimonio e a denunciare l’illiceità dei mezzi innaturali di regolazione delle nascite.

Nel sottolineare il cuore dell’importante Enciclica, così afferma: “Nel difendere la morale coniugale, nella sua integrità, la Chiesa sa di contribuire all’instaurazione di una civiltà veramente umana: essa impegna l’uomo a non abdicare alla propria responsabilità e, al tempo stesso, difende la dignità dei coniugi”» (T. Bosco – G. Foccoli, Paolo VI, Giovanni Battista Montini, Elledici, Torino 2009, p. 44). Vent’anni più tardi, dopo aver conseguito la licenza in teologia morale, intrapresi un nuovo percorso universitario in pedagogia al termine del quale volli presentare una tesi di laurea sull’Humanae Vitae – a ormai vent’anni dalla sua promulgazione –, stavolta come discorso pedagogico. Quando presentai questa tesi di laurea temevo che non fosse accettata in quel contesto di università pubblica. Invece mi diedero ampio spazio nella dissertazione. Io credevo che non mi avrebbero accettato una tale tesi o che sarebbe stata un po’ criticata. Invece […] quando chiesi ad Annibale Pizzi se era disposto a essere mio relatore per una tesi in pedagogia sull’Humanae vitae a vent’anni dalla sua promulgazione, lui mi disse subito: «Porteremo una novità all’interno di questa università pubblica. Proviamoci! E in ogni caso non ti preoccupare, che la laurea ti sarà data». Invece i timori svanirono tutti e fu un gran successo. I professori presenti alla discussione si mostrarono molto interessati, soprattutto perché si parlava della sessualità come valore, si dimostrava che la Chiesa si esprimeva in positivo sulle finalità della sessualità: unitiva e procreativa (cfr. S. Rinaldi, Il chierichetto di Paolo VI, cit., pp. 64-66). Ma facciamo un passo indietro. Prima ancora della promulgazione dell’Humanae vitae, ci fu un’altra enciclica di Paolo VI che impressionò il mondo: la famosa enciclica sociale la Populorum progressio (1967). Vedendo l’estendersi nel mondo della miseria e dello sfruttamento dei poveri, il Papa richiamò tutti al dovere di uno sforzo globale per lo “sviluppo culturale, morale, sociale e religioso” dei popoli arretrati. E dichiarò che questo dovere nasceva dal fatto che tutti siamo fratelli, e che i beni della terra sono dell’intera famiglia umana, e non di pochi privilegiati che se li sono accaparrati. E poiché i beni della terra venivano dilapidati in continue guerre e incamerati da fiorenti industrie che costruivano armi, Paolo VI proclamò il 1° gennaio del 1968 “Giornata della Pace”. Chiamò tutti i Cristiani a ripeterla ogni anno dettando personalmente lo slogan per ogni giornata: La pace è possibile – La pace è dovere – Ogni uomo è mio fratello – Se vuoi la pace, lavora per la giustizia – Se vuoi la pace, difendi la vita – Se vuoi la pace prepara la pace. «Sulla terra – egli scriverà – deve essere costruita la “Civiltà dell’Amore”. Essa prevarrà sull’affanno delle implacabili lotte sociali… e darà al mondo la sognata trasfigurazione dell’umanità, finalmente cristiana, amalgama degli ideali umani cristiani”». (T. Bosco – G. Foccoli, Paolo VI, cit., pp. 43-44) Trovandomi personalmente in quegli anni a vivere in Vaticano, come racconto nel volumetto uscito in questi giorni Il chierichetto di Paolo VI. Quattro anni al servizio del papa (Il pozzo di Giacobbe, Trapani ottobre 2018), mi incuriosì molto proprio l’enciclica Populorum progressio, attraverso la quale sono venuto a contatto per la prima volta con termini che ancora non sapevo ben coniugare. Il Papa infatti parlava della “civiltà dell’amore”, quella civiltà dell’amore che poi in seguito ho ritrovato anche in madre Teresa di Calcutta, la quale tra l’altro ha incontrato Paolo VI. Ebbene in quegli anni si iniziava sì a parlare di civiltà dell’amore, però io non riuscivo ancora a capirla. La civiltà dell’amore l’ho colta leggendo questa enciclica, ma leggendola sempre nel mio piccolo (S. Rinaldi, Il chierichetto di Paolo VI, cit., pp. 50-51). Fu però in particolare il mio allora direttore spirituale Mons. Deskur che mi indirizzò a leggere Dei verbum, Lumen gentium, Gaudium et spes e Populorum progressio. Con lui durante gli incontri settimanali discutevo a lungo e ciò che mi lasciava a conclusione di ogni nostro discorso era questo: «Non ti sentire mai fuori, sentiti dentro, perché da fuori non riuscirai a capire che cosa ti sta succedendo nello stare dentro». A distanza di anni ho capito bene quel messaggio. Mi diceva che io dovevo avere un rapporto con una persona, in questo caso con l’Uomo di Nazareth, perché la Chiesa non era altro che un prolungamento, attraverso le persone, dell’Uomo di Nazareth (cfr. S. Rinaldi, Il chierichetto di Paolo VI, cit., pp. 46-47). Non avevo ancora studiato un Gabriel Marcel, un Emmanuel Mounier, uno Jacques Maritain… e tutti gli altri, però leggendo i documenti, le costituzioni del Concilio Vaticano II mi sentivo nel cuore della Chiesa già parte attiva. Rimanevo estasiato dalle omelie che Paolo VI teneva, le quali mi apparivano come messaggi rivolti a tutti gli uomini di buona volontà. E proprio da allora presi il mio indirizzo, perché questo uomo mi fece capire l’importanza della filosofia, intesa come ricerca della verità nel vero senso della parola. Iniziai ad ascoltare le affermazioni sull’esistenza del cosiddetto Uomo di Nazareth. Grazie agli stimoli che ricevevo costantemente dalle omelie e dalle udienze del Papa iniziai a partire dal Gesù storico per comprendere il Cristo della fede. La filosofia è stata per me fondamentale. […] Sono riuscito da subito a cogliere i gesti profetici di Paolo VI, ed essi hanno influenzato molto la mia vita. Da allora iniziai a comprendere anche il significato della teologia. E non ero ancora studente di teologia. […] E dal momento in cui – grazie al servizio liturgico che prestavo – mi trovai davanti a quell’uomo, di cui fino ad allora avevo sentito solo parlare, capii che la Chiesa è il “già” del Regno di Dio. Io non conoscevo la Chiesa, se non quella in cui vivevo. […] Non è che Paolo VI mi abbia trasmesso la sua passione per la filosofia, ma lui stesso era un filosofo. Sì, lo era (cfr. S. Rinaldi, Il chierichetto di Paolo VI, cit., pp. 37-39). «Quello che può accadere a un bambino quando incontra un uomo di grandissimo spessore è sempre molto più di ciò che si può immaginare» (don Michele Falabretti, responsabile del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile della CEI, in AA.VV., Scuola di vita, Edizioni Eva, Venafro (IS) 2015, p. 40).

 

 

 

 di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 22 Ottobre 2018

Rubrica "Fede e Società"

 

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