I bambini ci chiedono: è morto per sempre?

Nascere e morire sono i due verbi che racchiudono la grammatica dell’intera esistenza umana. Sono esperienze basilari, eppure quasi dimenticate dalla cultura odierna, che non ama parlare di questi tempi, se non di fronte a casi eccezionali. Caduti in ostaggio della tecnica, il nascere e morire sono, invece, due momenti di cui bisogna riscoprire il significato più profondo. In realtà ciò che fa maggiormente discutere è il punto finale della vita: la morte.

Se si dà senso alla morte è tutta la vita che prende senso, altrimenti anche il nascere è una sventura, come aveva ben intuito Giacomo Leopardi nei versi famosi del Canto notturno di un pastore errante nell’Asia: «È funesto chi nasce il dì di Natale!». La morte non è mai piaciuta all’uomo, perfino desiderarla sembra ai più qualcosa di innaturale, almeno per chi gode della buona salute. La morte oggi è divenuta un tabù, un evento rimosso. Ma ci si chiede: scappiamo dalla morte o anche da qualcos’altro? In realtà rifiutiamo di accettare i nostri limiti. La grande tentazione (o illusione) dell’uomo è di voler essere o di credersi onnipotente, non si accetta il limite che ci viene posto dal nascere o dal morire: l’inizio e la fine della vita fisica non dipendono da noi. Le varie culture cercano tutte di esorcizzare, in qualche modo, la paura della morte. Anche la filosofia, posta di fronte al dilemma tra angoscia e stupore tra la nascita e la morte, si trova a dover scegliere tra il nichilismo circa il senso ultimo della vita umana e la fiducia che, al termine, un senso ci sia. Di più la filosofia non può dire. La paura della morte viene vinta dall'Uomo di Nazareth e della sua vittoria sono fatti partecipi tutti i credenti (Eb 2,14 – 15). La fede cristiana trasforma il nascere e il morire da enigma a mistero: enigma è qualcosa che è senza soluzione, mistero è ciò che può essere detto, evocato, anche se non esaurito, ma che acquista un senso dentro qualcosa di più grande. Il Cantico delle Creature fa da contrapposto alle amare affermazioni di Leopardi: si può Lodare il Signore non solo per il dono della vita, ma anche per «sora nostra morte corporale». Nella fede la morte non è più nemica, ma diventa "sorella" che accompagna verso una vita nuova. Viviamo in un contesto socio – culturale che offre rappresentazioni del reale più che il reale per come è. Lo sanno bene i bambini che attraverso la virtualità possono osservare immagini di parti del mondo lontanissime da casa loro. Ecco perché da più parti si afferma che i bambini di oggi crescono “diseducati” alle sfide reali che la vita propone. Gli stessi adulti di riferimento hanno una corresponsabilità in tutto questo, preoccupati come sono di garantire il coinvolgimento dei minori solo in esperienze dai connotati positivi, lucidi o divertenti. Questo significa, in concreto, allontanare bambini e adolescenti dal principio di realtà, mantenendoli in una cronica, quanto improbabile, permanenza nel principio del piacere. Partiamo da un dato di fatto: è giusto che, a chi sta crescendo, la morte appaia come un elemento incontrovertibile della vita, ineliminabile, così come non cancellabile è il dolore, il senso di sgomento e di impotenza che porta con sé, perché ci si deve confrontare con la perdita di una persona nei cui confronti esisteva un legame forte o un grande affetto. I bambini, del resto, si trovano, non di rado, a soffrire per la morte di un proprio cane o gatto e, comunque, sperimentano la sequenza vita – morte all’interno del ciclo delle stagioni: la primavera e l’estate portano fiori e frutti, l’autunno e l’inverno decadimento e morte. I genitori ed educatori si sentono spesso chiedere da un bambino: «Ma è morto per sempre? Poi torna?». E spesso non sanno cosa dire, cosa fare, perdendo un’opportunità fondamentale di condividere con chi sta crescendo non solo la narrazione dell’ultimo momento della vita (ovvero la morte), ma anche l’occasione per mostrarsi ai loro occhi come adulti capaci di rassicurare e di contenere emozioni che rischiano di diventare straripanti. Consapevoli che, di fronte alla morte, nessuno di noi ha risposte o parole certe da offrire, dobbiamo, come educatori, accettare l’idea che la morte debba essere oggetto di apprendimento e di discussione: del resto, il miglior antidoto contro la paura della morte è parlarne, fare domande, dire ogni cosa che terrorizza, piangere, per poi riuscire a mettere tutto in un cassetto del cuore e ripartire. Chi muore ci lascia con il dolore della mancanza, ma è un dolore che diminuisce con il tempo. Anche quello più assillante e forte, prima o poi si consuma e apre varchi alla speranza. Quando la morte entra nel mondo degli affetti concreti del bambino e colpisce qualcuno che per lui è un riferimento affettivo, le reazioni sono molto differenti a seconda che la perdita riguardi una figura di attaccamento, qualcuno cioè che per il bambino rappresenta una fonte di sicurezza e protezione (solitamente un genitore), oppure una figura significativa, ma non connotata da un legame di attaccamento. In quest’ultimo caso, il genitore potrà aiutare il bambino, con i gesti e con le parole, ad attraversare la fase del dolore e la possibilità di esprimerlo, offrendosi come “sponda affettiva”. Oppure offrire al bambino la possibilità di sentirsi vivo, attivo e potente di fronte al dolore da cui ci si sente travolti, chiedendogli di fare disegni, guardare insieme fotografie, portare un fiore sulla tomba della persona deceduta. Aiutare a pensare che dopo il buio tornerà la luce, dopo la fatica si potrà entrare a contatto con una nuova leggerezza è fondamentale ed è una responsabilità che l’adulto deve imparare a sostenere. I bambini hanno il diritto di poter chiedere: «Ma è morto per sempre? Non tornerà mai più?», e di fronte a questi interrogativi gli adulti hanno il dovere di non raccontare bugie, ben sapendo che si tratta di domande a cui la ragione può dare poche risposte. Il ruolo dell’adulto non consiste nel fornire certezze, ma nel dare rassicurazioni. «Avrai sempre persone al tuo fianco che ti vorranno bene». Laddove ci sembra di non avere le parole giuste, possiamo farci aiutare. L’ipotesi è che il silenzio possa medicare e anestetizzare il dolore più delle parole. La realtà, però, disconferma sempre questa teoria. Il silenzio ha un peso sproporzionato sulle spalle di bambini, a cui serve poter esprimere il dolore, fare domande, scaricare la rabbia.

 

di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 5 Novembre 2018

Rubrica "Fede e Società"

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