Certamente, abituarsi a non perdere mai la speranza e a guardare al futuro sempre con fiducia è un’ottima norma di vita. L’esperienza insegna che quanti, anche nei momenti più difficili, sanno mantenersi aperti alla speranza riescono meglio di altri a mobilitare ogni loro energia e ad avere spesso ragione di situazioni che potevano sembrare prive di un favorevole sbocco.
Fortunati, quindi, quelli che hanno imparato presto a riconoscere e ad utilizzare al meglio le loro speranze riuscendo così a dare tono e brio anche alle giornate più pesanti. Dicono gli inglesi: Cammina e avrai le gambe. Inutile dire che le speranze le quali si fondano esclusivamente sulle risorse personali e su un’ipotetica buona sorte sono spesso costrette a mostrare i loro limiti, specie nel caso di gravi malattie o della perdita di una persona cara o del venire meno dell’affetto e della stima di persone su cui si era molto contato. In simili casi, quando uno è portato in base alle sue convinzioni a cercare solo in se stesso e nell’ambiente in cui vive ogni motivo di speranza, la tentazione di cedere allo sconforto può farsi molto forte. Quanto più spazio e quanta più forza può invece dare alle sue speranze chi crede in Dio! Quella che chiamiamo la virtù teologale della speranza mira, sì, a Dio e alle cose eterne, ma non manca di riflettersi anche sui desideri, le aspirazioni e i bisogni connessi con la vita terrena. A proposito della speranza cristiana così si è espresso il già ricordato cardinale Basil Hume: «Sperare significa avere fiducia di poter raggiungere quanto cerchiamo, di arrivare alla meta che ci siamo prefissi. Tale fiducia viene da Dio, il solo capace a realizzare le nostre aspirazioni più profonde e di appagarci completamente. Per questo, i cristiani dovrebbero sentirsi sempre allegri ed espansivi» (Hume B., Alla ricerca di Dio, Brescia 1980). Peccato che chi non crede sia escluso dalla possibilità di tanta grazia e ciò potrebbe parere un’ingiustizia se la via alla fede e alla speranza in Dio non rimanesse sempre aperta a tutti. Indubbiamente alcuni, anche per temperamento e per l’ambiente in cui vivono o sono vissuti, fanno molta più fatica che altri ad avvicinarsi alla suprema verità di Dio. Uno tra questi fu Friedrich Nietzsche, come appare da questa sua preghiera giovanile: «Ancora una volta prima di continuare il cammino e di spingere innanzi lo sguardo, io levo solitario a te le mie mani. Te io supplico a cui nel più profondo del mio cuore ho consacrato solennemente altari perché in ogni tempo possa udire il richiamo della tua voce. Su di essi arde, profondamente incisa, la dedica: al Dio ignoto. Io gli appartengo anche se finora sono rimasto nella masnada degli empi. Sono suo e sento i legami che mi spingono a seguirlo. Voglio conoscerti, o sconosciuto, tu che frughi nel profondo della mia anima, tu che come una bufera squassi tutta la mia vita, tu a me incomprensibile, a me che pur sono fatto a tua immagine. Voglio conoscerti e servirti». Si direbbe che in questa preghiera le premesse per una vera fede vi siano tutte, tutte meno una che è essenziale: l’amore. Dio è, infatti, una verità che esige di essere amata e desiderata per poter essere riconosciuta. Una esigenza che potrebbe sembrare addirittura assurda se non fosse di Dio il primo passo verso l’uomo e se l’amore dell’uomo per Dio non fosse sempre una risposta a quello di Dio per l’uomo. Anche il campo scientifico si sa che viene quasi sempre trovato quanto il ricercatore cerca o che per lo meno rientra nei suoi interessi. E non è forse vero che quasi sempre si ama la persona amata prima di averla del tutto conosciuta confidando e anzi essendo certi che essa sarà secondo quanto ha fatto presagire e sperare di sé? Il «già e non ancora» vale anche per la fede e soprattutto per la speranza. Ogni credente si sente di credere e di sperare, mai però con quella pienezza che desidererebbe. Tutti ricordano quella frase che il padre del povero invasato disse a Cristo: «Credo, ma tu aiutami a credere di più». Momenti in cui la nostra speranza era impari alle circostanze tutti li abbiamo vissuti. Beati quelli che in certe situazioni hanno saputo rinunziare anche a quel tanto di speranza che rimaneva loro per rimettersi completamente alla volontà di Dio. La speranza in Dio e la speranza nell’uomo si fondono armoniosamente e lasciano intravedere un mondo che è nel cuore di tutti. Rudolf Bultmann, studioso di escatologia, fa del futuro questo singolare elogio: «Quando riflettiamo sulle azioni umane e notiamo che esse sono determinate da un certo fine, ci rendiamo conto che la vita dell’uomo è sempre orientata verso il futuro. Finché vive, l’uomo non è mai pago del presente, ma attese, speranze, timori, sono sempre volto all’avvenire; egli non può mai, come il Faust goethiano, dire all’attimo: “Fermati, sei bello!”. Questo significa che la vera vita dell’uomo è sempre davanti a lui, ancora da conoscere, ancora da vivere. L’uomo è sempre in cammino; ogni ora presente non ha senso e valore in se stessa ma del suo futuro. Ciò significa che anche l’essenza di tutto quanto l’uomo fa e intraprende nel presente si rivelerà solo nel futuro come importante o futile, come successo o fallimento. Ogni azione è un rischio» (Bultmann R., Storia Escatologica, Milano 1962).
di don Salvatore Rinaldi
Rubrica "Fede e Società"
Articolo di lunedì 10 Dicembre 2018
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