La potenza positiva o negativa della parola, la sua valenza edificante o destrutturante, sono note a tutti: le parole possono fare del bene o del male. Possiamo dire che l’uomo è chiamato a fare di ogni suo atto di parola una bene-dizione. L. Lèvy-Bruhi, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1966: nell’antichità la cosiddetta «mentalità primitiva» conosceva il valore magico della parola, per cui la bene-dizione manteneva il mondo nell’armonia e la male-dizione lo gettava nel caos.
Per quella mentalità, l’uso delle parole non è indifferente: il solo fatto di pronunciarle può dare stabilità o distruggere […]. Vi è un’azione magica della parola […]. Lontani ormai da questa concezione magica, noi oggi conosciamo gli effetti psicologici e biologici della parola e sappiamo che il linguaggio è azione e si esprime in «atti linguistici», per cui la parola può operare il bene o il male. Ogni parola produce una risonanza affettiva: colpisce la nostra sensibilità, è sentita come piacevole o come sgradevole, provoca gioia o getta nello scoramento, accarezza o violenta, favorisce la relazione oppure la mina, umilia o incoraggia, deprime o entusiasma. Parole benefiche, che fanno bene, sono le parole di consolazione, di comprensione, di simpatia, di affetto, di riconoscimento, e anche le parole che operano il bene a livello sociale e politico, che stabiliscono ciò che è giusto e lo fanno: accoglienza, perdono, riconciliazione. Ma vi sono anche parole tossiche, cattive, e perfino patogene, che fanno soffrire e producono malattie, le parole possono uccidere. Una calunnia può provocare la morte di una persona inducendola al suicidio. Gli psicoterapeuti sanno bene come certi traumi psicologici risalgano a fatti di linguaggio. Ci sono parole che si rivelano essere letteralmente delle “maledizioni”, parola la cui etimologia ci ricorda che il male che gli umani si fanno è spesso dovuto a null’altro che alla “dizione”, cioè al linguaggio. Il bene e il male noi li facciamo non solo con le azioni, ma anche con le parole, insomma, la parola è un’azione. Salutare, conversare, mentire, insultare, chiedere perdono, perdonare, incoraggiare, consolare, esortare, pregare, supplicare, comandare, domandare, interrogare, rimproverare, ecc. Parlare è agire, è intervenire sugli altri e sul mondo. Che la bene-dizione, intesa come parlare il bene e realizzarlo parlandolo, è il senso fondamentale della parola, di ogni parola, che intende cioè cercare e realizzare il bene dell’altro, ovvero proseguire la sua umanizzazione. Come ha scritto Simone Weil: «Si può ricondurre tutta l’arte di vivere a un buon uso del linguaggio». O, se vogliamo, a un linguaggio che parli il bene con gli altri e con se stesso (D. Le Breton, Le silence et la communication. Contre les excès de la communication, Arcanes, Toulouse 2009, 23-31). Venire al mondo è accedere alla parola e con essa l’uomo si situa in rapporto al reale: tra sé e la realtà egli interpone la rete delle parole e così egli nomina il mondo, lo conosce, lo elabora, lo significa. L’uomo ha come proprio compito di umanizzazione quello di imparare a parlare, di fare del parlare un’arte, e un’arte che possa incontrare quel giudizio positivo etico-estetico (buono-bello). L’uomo è chiamato a fare della parola una bene-dizione. Solo un uso etico della parola rende visibili le relazioni umane, intime, interpersonali, sociali e politiche. Elementare responsabilità della parola è che la parola pronunciata non è più mia, ma è abbandonata all’udire. La parola pronunciata appartiene a chi la ode. L’etica della parola è direttamente rispetto e riconoscimento della parola umana e rende colui che parla l’essere che risponde delle sue parole. Essa non demonizza l’avversario, non soffoca le sue parole gridando più forte di lui, non nega di aver detto ciò che si è appena detto, né getta sugli altri colpa del fraintendimento, ma esige che l’interlocutore sia considerato con rispetto, che la parola pronunciata non possa essere smentita, negata, ritrattata, banalizzata, e, infine, che la parola stessa sia custodita nella sua valenza di espressione umana per eccellenza, dunque espressiva di colui che parla. L’opinione dell’altro, l’opinione diversa dalla mia è per me importante quanto la mia. Quale verità, dunque? Quella costruita con il faticoso lavoro del dialogo, del confronto e della discussione. Mantenere la parola data è il segno della fedeltà alla promessa, è segno di responsabilità etica. Promettere e mantenere le promesse consente di creare un clima di fiducia tra generazioni, tra padri e figli, tra responsabili politici e cittadini. L’etica della parola è essenziale per costruire rapporti buoni, segnati dal bene. Molti testi biblici riguardanti il prossimo vertono sul parlare: «Dite ciascuno la verità al proprio prossimo» (Zc 8,16; Ef 4,25); «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Es 20,16; Pr 25,18); «Colui che adula il prossimo gli tende una rete» (Pr 29,5); «Con la bocca l’empio rovina il suo prossimo» (Pr 11,9), ecc. L’etica della prossimità esige un’etica della parola, una responsabilità della parola. Che è direttamente un’etica del bene comune. La bene-dizione costruisce la convivenza civile. Così come edifica le buone relazioni interpersonali, amicali, familiari. Un’etica della parola raggiunge così il significato biblico della benedizione che consiste in una parola che apre alla vita, che crea e dona vita.
di don Salvatore Rinaldi
Rubrica "Fede e Società"
Articolo di lunedì 7 gennaio 2019
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