C'è salvezza nella storia?

Il cambiamento in atto non è solo un aggiornamento di strumenti a disposizione, ma un cambio di modello antropologico. Si tratta infatti di un passaggio epocale del modo di concepire l’essere umano e i suoi rapporti e che a lungo andare produrrà modifiche strutturali della fisiologia cerebrale e della neuropsicologia.

 

 

Come possono i ragazzi e i giovani, che vivono, studiano, lavorano, si divertono quotidianamente con il linguaggio virtuale, con la velocità delle immagini e la bulimia degli stimoli sensoriali di questo mondo tecnologico, essere ancora in grado di vivere un’esperienza simbolica come è quella liturgica? La liturgia è in un certo senso la matrice originaria del virtuale, perché è la manifestazione della vita del Risorto che trasgredisce le regole del reale, è la realizzazione in atto del sogno che il Padre ha di redenzione piena e di bellezza per tutta l’umanità e per il creato, è la forza di immaginazione del Regno che chiede alla comunità celebrante di farsi carico di questo sogno e di cominciare a realizzarlo nella storia complessa che essa abita. Dove si forma lo sguardo di una comunità? Se la celebrazione della Pasqua di Cristo è la fonte da cui nasce una comunità cristiana, la liturgia dovrebbe formare la mentalità la visione, la prospettiva di una comunità. La liturgia non è proprietà dei preti, ma patrimonio di tutto il popolo di Dio. La formazione liturgica dovrebbe smantellarne il clericalismo. A occuparsi di liturgia dovrebbero essere quelli e quelle più appassionati del mondo, che vivono da credenti e da cittadini dentro il mondo e quindi hanno a cuore ogni processo di pace e di giustizia. La pastorale non coincide con la liturgia, è vero, ma la liturgia è un punto genetico per la pastorale. Una comunità che spesso si agita nel programmare un anno pastorale dovrebbe fermarsi a pensare il proprio percorso a partire dall’anno liturgico. Le nostre comunità spesso sono preoccupate dalle «cose da fare». Ma prima di tutto è necessario pensare insieme e formarsi. La liturgia ci forma soprattutto vivendola. Con un certo realismo dobbiamo, però, ammettere che le nostre comunità ancora oggi consumano un rito, si emozionano qualche volta dentro un rito, intravedendo in qualche situazione particolare la potenza che il rito stesso sprigiona, ma il più delle volte le nostre liturgie sono stanche e rassegnate. Se la fede è una esperienza storica, la fede si celebra nella storia e non fuori da essa. Non basta comporre preghiere dei fedeli più aderenti al mondo in cui viviamo per rendere una liturgia più dentro la storia. Il problema di fondo è come una comunità pensa, agisce e celebra nel tempo e nella storia. La liturgia può essere il luogo in cui maturare esperienze formative che poi la comunità deve offrire nelle diverse situazioni. Ma prima di tutto ci si dovrebbe chiedere: qual è lo stile della comunità davanti alla storia, quali il suo pensiero, la sua situazione educativa, culturale, pastorale dentro la storia nella quale vive? Il tempo liturgico che ci mette in relazione con il mistero centrale della fede, la Pasqua di Cristo come si esprime nella qualità delle relazioni interpersonali e comunitarie? La liturgia di una comunità non è una parentesi tra le relazioni, ma una fonte per ripensare e riscrivere le proprie relazioni. Nelle nostre comunità non mancano strappi, ferite, conflitti. In che misura il tempo liturgico forma alle relazioni sane e autentiche? Nelle nostre liturgie logorroiche, affette dal didascalismo, manca la poesia, il silenzio, la forza e l’intensità dei gesti. La nostra liturgia spesso non è più spazio liminale, più spazio di protezione dal mondo che luogo di esposizione al mondo. In questo tempo viviamo emergenze sociali importanti. In che misura il tempo liturgico diventa un luogo formativo della nostra sensibilità culturale e sociale? La liturgia può restare fuori dai conflitti che attraversano una comunità? C’è una diffusa immaturità dei sentimenti. L’anno liturgico ci offre la possibilità di entrare nei sentimenti più profondi, che intrecciano vita e morte, gioia e dolore, e nello stesso tempo offre un modo per stare davanti a questi sentimenti, mettendoli alla prova della Parola. Il sentimento non è marginale alla storia. Il sentimento dello stupore, ad esempio, che è all’origine dell’apertura, della ricerca, dell’immaginazione, ma anche della fede-fiducia in che misura trova cittadinanza nelle nostre liturgie? Spesso sembriamo Magi ripiegati affannosamente sul proprio navigatore satellitare, incapaci di guardare le stelle e scorgere attraverso di esse il cammino. Un altro sentimento di cui le nostre comunità sembrano impoverite è quello della compassione. Il tempo della liturgia non forma solo lo sguardo, ma anche le viscere. Sono le viscere della misericordia che rendono gli umani simili a Dio. Vivere dentro la storia e dentro le relazioni dell’esperienza liturgica significa vivere appunto dentro il corpo. Sappiamo quanto il cristianesimo, che si potrebbe definire religione del corpo, lo abbia, lungo la storia, rimosso o umiliato. La difficoltà di vivere i sentimenti nella liturgia è dovuta anche alla difficoltà di vivere il proprio corpo nella celebrazione. Nel tempo liturgico si fa l’esperienza del “già e non ancora”. E dentro questa speranza celebrata si fa la speranza storica di quel principio speranza che E. Bloch indicava come antidoto contro ogni forma di chiusura e disumanità. «L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario […]. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare che espande, allarga gli uomini invece che restringerli…» (E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005, p. 1203). Il tempo della liturgia non offre piste operative rispetto alla trasformazione della storia, ma indica il senso del cambiamento, l’orizzonte verso cui tendere, la strada possibile per uscire da strettoie e da barricate. È il tempo che spalanca le tombe e fa uscire verso percorsi di risurrezione, di rinascita, di creatività. È il tempo dello Spirito che insegna a parlare lingue nuove, un tempo ecumenico in cui il dialogo e la differenza diventano cifra inconfondibile dello stile di Dio. Il tempo liturgico nella sua struttura escatologica assume anche una rilevanza «politica». Celebrare la salvezza nella storia significa educare a uno sguardo nuovo sul mondo e quindi a un impegno etico. Il tempo liturgico forma alla visione, all’immaginazione, alla profezia. Bonhoeffer dice che «chi sta con un piede solo sulla terra rischia di stare poi con un piede solo in cielo» (Lettere alla fidanzata Queriniana 1994, p. 9.48. questa immagine è una felice metafora, per riassumere il nostro discorso su tempo, liturgia e formazione: fare della fedeltà alla terra la verifica della propria fedeltà al cielo. Non siamo fatti per stare dritti su un piede solo. Siamo umani, non fenicotteri…

 

 di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 21 Gennaio 2019

Rubrica "Fede e Società"

 

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