L'ospitalità richiede la pluralità, non la fusione

L’ospitalità è una tradizione con radici antiche, una pratica che ha attraversato la storia e le culture, una realtà che ha plasmato la vita quotidiana di popoli e individui, rendendo possibile lo sviluppo della civiltà. Da sempre un legame unisce l’ospitalità alla dimensione religiosa: «L’ospite è sacro», gode della protezione divina e lo si deve accogliere, ponendosi al suo servizio con rispetto e cordialità.

Nella cultura odierna la situazione è profondamente mutata. L’ospitalità non è più un incontro con Dio, in molti casi è intesa semplicemente come un «intrattenere parenti e amici». Il concetto di ospitalità è stato “ristretto” e si assiste ormai alla sua deformazione (cfr. M. POGGI JOHNSON, Amor m’accolse. L’ospitalità al cuore della vita, Marietti 1820, Genova 2014, p. 30). Oggi si parla di «industria dell’ospitalità», mentre nella pubblicistica si dispensano consigli sul come “ricevere”, ma al solo scopo di far colpo sull’ospite, se non addirittura di metterlo in soggezione. Nulla di più estraneo alla visione “tradizionale” dell’ospitalità. Ma il volto del mondo è in continuo cambiamento e con l’arrivo di masse di profughi che bussano alle porte dell’Europa, in fuga dalla guerra, alla ricerca di un futuro migliore, si rende necessario un ulteriore ripensamento del concetto di ospitalità. La crisi umanitaria di cui siamo testimoni, spesso impotenti, pone come improrogabile l’esigenza di elaborare concetti “nuovi” che permettano di comprendere le condizioni di un’umanità alle prese con le sfide della globalizzazione e al contempo di attivare processi per la costruzione di tale umanità. Il movimento delle persone produce non solo disagi, ma propone nuove sfide insieme a nuove opportunità. Il fenomeno interessa paesi e città che devono confrontarsi con una presenza crescente di persone giunte da altre aree geografiche e culturali; persone che chiedono ospitalità non solo alle istituzioni civili, ma anche alle comunità cristiane. Si tratta di fenomeni complessi, di cui devono occuparsi le normative nazionali e internazionali, ma sono anche realtà che possono inaugurare una stagione nuova e rappresentare un terreno fertile per le nostre società, nella certezza che anche in questo tempo lo straniero porta con sé una benedizione. L’ospitalità, argomento oggi più che mai dibattuto, interessa più campi e dimensioni, senza tuttavia appartenere compiutamente a nessuno di essi. L’ospitalità non è una realtà statica, ma una facoltà umana da perfezionare. Si tratta di un dinamismo, un itinerario da percorrere, in vista della maturità; un potenziale da coltivare, poiché non raggiunge il proprio compimento se non attraverso un impegno paziente. La percezione dell’altro non è frutto di un processo puramente asettico, ma comporta un coinvolgimento emotivo. L’oggetto esperito come nemico, provoca, infatti, paura e aggressività che, nello stadio in cui non sono state ancora  integrate le immagini oggettuali discordanti, si alternano con altre emozioni di valenza opposta. Raggiunta la fase successiva, il soggetto è in grado di sperimentare contemporaneamente una vasta gamma di sentimenti, molti dei quali orientano positivamente verso l’altro. Tra di essi possiamo annoverare anche l’empatia, un’emozione con caratteristiche peculiari, grazie alla quale noi riconosciamo e accogliamo la presenza dell’altro nel nostro spazio interiore. L’ospitalità, tuttavia, non può limitarsi a coinvolgere la dimensione cognitiva e affettiva: essa non si esaurisce nel desiderio generoso o nella comprensione razionale ed emotiva del vissuto altrui, ma richiede l’impegno della volontà, che permette di farsi dono. In essa, infatti, sono presenti i due movimenti dell’amore: il dare e il ricevere. Se, infatti, l’ospitare l’altro richiede un atteggiamento di accoglienza e di recettività, poiché si tratta di includerlo all’interno della nostra esistenza, esso domanda anche la capacità di uscire da sé: uscire dalle paure, dai pregiudizi, dalla sicurezza, dagli stereotipi per entrare in quella «misteriosa danza del dare e del ricevere, che caratterizza l’uomo e lo rende sempre più “somigliante” a Dio» (cfr. R. REPOLE, Dono, Rosenberg & Sellier, Torino 2013, p. 87). Fare dell’ospitalità un concetto politico significa, prima di tutto, riannodarla alle dinamiche costitutive del comune; significa interpretarla non tanto come momentanea o perdurante tendenza all’apertura di sé, ma come aspetto e luogo intimamente fondativo di quella particolare comunità che fin dalle origini classiche della cultura occidentale viene detta politica (politike koinonia) (V. ROSITO in Credere Oggi n. 215 p. 82). Restituire o attribuire all’ospitalità piena dignità politica vuol dire sottrarla alla retorica mediatica e demagogica, che intende collegarla quasi esclusivamente alla tutela della proprietà individuale e alla sicurezza personale. È più che mai necessario recuperare uno sguardo lucido ed emancipato da qualsivoglia strumentalizzazione politica che riduca lo straniero, il migrante, l’ospite a minaccia per quanto è in “mio” possesso o per l’inviolabilità della “mia” persona fisica. Per connotare politicamente l’ospitalità è necessario, prima di tutto, considerarla un presupposto imprescindibile per la formazione del politico in quanto espressione qualificata della dimensione pubblica. L’ospitalità non è, pertanto, un attributo accessorio della coscienza individuale, ma un tratto sostanziale della stessa comunità politica. Nella storia della cultura e delle istituzioni occidentali il politico non nasce come risposta al bisogno di tutelare la sfera individuale o privatistica dei soggetti. Esso rivela, infatti, la sua ragion d’essere nella misura in cui si profila come spazio della convergenza e della partecipazione di tutti alla formazione di un tessuto relazionale qualificato e inclusivo. L’ospitalità politicamente connotata non è tanto una modalità espressiva del rapporto io-tu, bensì l’apertura costitutiva e fondativa del rapporto io-mondo.

 

di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 4 Febbraio 2019

Rubrica "Fede e Società"

 

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