Lotta contro la malattia

Tra le attività dell’uomo necessarie per lo sviluppo del singolo e dell’umanità, quella che ha a che fare con la lotta contro le malattie è certamente tra le più nobili, in quanto riguarda una necessità fortemente sentita da tutti. La malattia fisica è uno degli aspetti del male che affliggono l’uomo. Nell’ultimo secolo le diverse branchie della scienza medica non solo hanno raggiunto uno sviluppo conoscitivo eccezionale dei processi della vita, ma hanno anche sviluppato capacità diagnostiche e di intervento a livello farmacologico e chirurgico molto precise.

 

 

Come società non possiamo che essere grati a tutti, ricercatori e medici, per un tale sviluppo che ha richiesto, e richiede, impegno costante e tanta dedizione non solo nei laboratori, ma anche nella relazione quotidiana con coloro che soffrono a causa della malattia. Mi piace pensare ai moderni ospedali come a specie di santuari dove ci si prende cura con competenza della salute fisica delle persone ad analogia delle nostre chiese dove ci si prende cura con competenza della salute spirituale delle stesse. Come ogni realtà e opera umana, anche la sanità porta con sé la possibilità di una certa ambiguità e di un uso quanto meno problematico delle possibilità sviluppate. Non sempre tutto è roseo, tutto risulta a servizio del bene integrale della persona, in quanto c’è sempre di mezzo l’umanità di coloro che vi operano e di coloro che ne chiedono l’intervento, con tutte le loro fragilità e debolezze. Non siamo ancora nel regno dove ogni male morale e spirituale è definitivamente superato. Questa consapevolezza ci indica che dobbiamo essere sempre vigili, evitare idealizzazioni improprie e attese non realistiche. Non dobbiamo mai dimenticare che tutto deve essere a vero servizio del bene integrale della persona, dal concepimento alla morte naturale, persona che non è fatta solo di corpo e biologica, ma è un essere spirituale che ha una sua propria dignità e non può mai diventare strumento per fini che non siano il suo vero bene. Nei Paesi poveri si muore ancora per malattie che potrebbero essere facilmente curate con farmaci che in occidente hanno un costo tutt’altro che inaccessibile. È ovvio che la sanità abbia un costo, ma il criterio economico non può essere l’unico o il primo criterio con il quale perseguire investimenti sia nella ricerca sia nella distribuzione dei farmaci sia nella gestione delle strutture sanitarie. L’ineguaglianza nella possibilità di accesso alla sanità tra Paesi poveri e Paesi ricchi fa sì che la cura della salute presenti disparità di notevole rilievo che non possono non interrogare la coscienza. Dinanzi al grande tema della salute umana e al dramma della malattia, la Chiesa si è sempre sentita vivamente coinvolta, a motivo della fedeltà al mandato di Gesù, il Buon Samaritano, medico delle anime e dei corpi, che ha comandato ai suoi discepoli di stare concretamente vicino ai malati e ai sofferenti per alleviarne le pene. Pertanto, la promozione della salute e l’impegno per la cura degli infermi sono sempre stati due componenti fondamentali dell’evangelizzazione. Nel 2006, la “Commissione Episcopale per il servizio della carità e la salute” della Conferenza Episcopale Italiana ha pubblicato una Nota Pastorale nella quale, oltre a offrire alle comunità ecclesiali criteri di discernimento e indicazioni utili per un’adeguata e incisiva testimonianza della carità cristiana nel mondo sanitario, ha pure evidenziato le luci e le ombre che emergono nell’ambito della sanità e che costituiscono “una provocazione feconda per l’agire pastorale della Chiesa”. I Vescovi vedono con favore gli sforzi attuati dai politici e dagli amministratori per salvaguardare la salute dei cittadini e garantire un alto livello scientifico e tecnico della cura, che sia in grado di fornire ampie garanzie sociali, come previsto dall’articolo 32 della Costituzione. Nel documento si fa notare che anche in ambito culturale si è sviluppato una positiva mentalità che pone la salute degli individui su di un gradino assai elevato nella scala delle priorità sociali. “Un’eccessiva libertà d’iniziativa, ad esempio, - si legge a questo proposito nel documento – rischia di emarginare i soggetti più deboli, mentre l’esasperazione dell’uguaglianza dei servizi socio-sanitari resi alla popolazione può ingenerare burocratizzazione della risposta, passività e acquiescenza dell’utente. Anche l’adozione indiscriminata del modello aziendale in ambito sanitario, seppur motivata dall’esigenza di organizzare i servizi in maniera più efficiente, si presta al rischio di privilegiare il risultato economico rispetto alla cura della persona. Per altro verso, l’aver demandato a livello regionale rilevanti competenze per la tutela della salute deve comporsi con la garanzia, assicurata in misura uguale sull’intero territorio nazionale, dei livelli essenziali delle prestazioni. Se, per un verso, i progressi della medicina hanno migliorato la qualità della vita, l’hanno allungato e sono in grado di contrastare efficacemente il dolore, per un altro hanno stimolato nell’uomo un atteggiamento prometeico, che ignora i limiti della condizione umana e contribuisce a coltivare l’immagine di un individuo padrone assoluto della propria esistenza, unico arbitro delle sue scelte. Due sintomi di tale concezione sono l’accanimento terapeutico e l’eutanasia: nel primo caso, l’uomo rifiuta il confronto, con la morte, nel secondo, invece, la anticipa, ma entrambi gli atteggiamenti derivano dall’intenzione di esercitare un pieno dominio su se stesso. Questa mentalità ha enormi ripercussioni anche sulla psiche e sulla spiritualità della persona, perché lo scontro tra un progresso illimitato e l’ineludibile finitudine umana genera nevrosi, disagio esistenziale, mancanza di ricerca di senso e di valori. L’affievolirsi delle evidenze etiche e il soggettivismo delle coscienze, unitamente al pluralismo culturale, etico e religioso, portano facilmente a relativizzare i valori, e quindi al rischio di non poter più fare riferimento a un ethos condiviso, soprattutto in ordine alle grandi domande esistenziali, riferite al senso del nascere, del vivere e del morire”. Oggi la medicina si pone non più il solo obbiettivo di far vivere, ma quello di far vivere bene: insomma, si punta molto sulla qualità della vita. Questo è giusto, ma non esente da ombre. Come opportunamente richiamano i Vescovi, “una delle conseguenze negative è identificabile con la tendenza a rimuovere gli aspetti faticosi dell’esistenza: la sofferenza è considerata scomoda compagna di cui l’uomo diventa silenzioso spettatore impotente; la malattia è vissuta come evento da cui liberarsi più che evento da liberare; il naturale processo di invecchiamento è rifiutato, dal momento che la vecchiaia viene considerata un tempo dopo la vita vera e non tempo della vita; la morte è vista come evento indicibile e inaudito; la disabilità è considerata più come ostacolo che come provocazione, più come bisogno assistenziale che non come domanda di riconoscimento esistenziale”. Bisogna “passare dal curare al prendersi cura, considerare la persona nella totalità del suo essere”. Se negli anni più recenti si è registrata una buona crescita a livello tecnico e specialistico, ciò è stato accompagnato da una cura settoriale e frammentata, a scapito di un approccio olistico alla persona, approccio che, invece, deve essere perseguito in nome del valore dell’integralità dell’essere umano.

 

 di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 25 Febbraio 2019

Rubrica "Fede e Società"

 

 

 

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