Da un lato l’odio dice la nostra storia: dice le nostre ferite, le nostre paure. Dall’altro non è semplicemente l’opposto dell’amore, ma anzi contiene le stesse caratteristiche dell’amore: intimità (negata), passione, impegno. In base a quali di queste si attivano e a come si combinano, si avrà un odio «freddo», «caldo» o «gelido».
Dal punto di vista psicologico l’odio è definito come una risoluta ostilità accompagnata da rifiuto, ripugnanza e talvolta da desiderio di nuocere o distruggere uno specifico oggetto, che può essere anche il proprio Sé o la vita medesima (U. Galimberti, Nuovo dizionario di Psicologia, Feltrinelli, Bologna 2018, 624). Questo sentimento è da sempre considerato antitetico all’amore e - per S. Freud – ha un’origine propria: come relazione nei confronti dell’oggetto, è più antico dell’amore e scaturisce dal ripudio primordiale che l’io narcisistico oppone al mondo esterno come sorgente di stimoli. Oggi il concetto di odio ci appare piuttosto semplice: indica inimicizia estrema, forte antipatia o avversione, disprezzo, fuga, attacco. Eppure, la sua apparente ovvietà è ingannevole, dato che l’odio abbonda di significati e si sviluppa dal sovrapporsi di elementi cognitivi, affettivi, culturali e di gruppo, in rapporti difficili e conflittuali fra loro. Che cosa è l’odio? Quali sono le sue componenti? Che ruolo ricopre nel terrorismo, nei massacri o nelle lotte fratricide? È possibile valutarlo e come prevenirlo? Come si sviluppa nei singoli e nei gruppi? Quali differenze ci sono fra odio e rabbia? I massimi esperti contemporanei in materia hanno delineato la «teoria della struttura triangolare dell’odio», secondo cui l’odio contiene tre caratteristiche (le stesse che compongono anche l’amore): intimità (negata), passione, impegno. A seconda di quali di queste caratteristiche si attiva, e da come si incrociano fra loro, si avranno diversi tipi e modi di odiare. La prima è la «negazione dell’intimità», ovvero il tenere le distanze da un oggetto ritenuto negativo. È «l’odio freddo», che ha disgusto per gli altri e li tiene a distanza in quanto diversi se non anche repellenti. La «passione», la seconda componente, esprime l’odio come rabbia e/o paura. È «l’odio caldo» che, pieno di rabbia, aggredisce l’oggetto odiato o che, pieno di paura, fugge dagli altri, percepiti come dannosi. C’è poi la terza componente, ossia l’«impegno», che vede l’odio come svalutazione attraverso il disprezzo. È «l’odio gelido» che percepisce gli altri come esseri inferiori, guardandoli con superiorità, dipingendo un gruppo nemico come il regno del male, usando espressioni come «tu non cambierai proprio mai!». L’odio, esattamente come l’amore, incatena all’oggetto. Chi odia vive quotidianamente con il proprio oggetto d’odio, come chi ama. L’odio, come l’amore, rende un individuo dipendente da un altro e la scomparsa del suo oggetto lascia nella tristezza e nella desolazione. Senza qualcosa da amare o da odiare perderemmo la sorgente di tanti nostri pensieri e azioni e la vita diventerebbe più piatta. Nutrire il proprio odio, accoglierlo, prendersene cura… può addirittura sembrare qualcosa per la quale vale la pena di esistere: passare tutta la vita a pensare come potrei farla pagare a tutti quelli che mi hanno fatto stare male. Ma, alla fine, l’odio svuota: ti fa portare le sue catene ovunque vai e, anche quando non sei più legato a quelle catene, continua a farti avere un’andatura strana, trascinata. Per odiare non basta provare rabbia. Ci vuole anche un certo modo di guardare l’altro. Prima di arrivare ad odiare un altro o un gruppo, bisogna guardarlo male, come un diverso, uno pericoloso, malefico, immortale. Distinguere, però, non è ancora odiare. Diventa un terreno fertile per l’odio quando chi distingue si sente, in aggiunta, in una situazione (interiore o sociale) che non garantisce più la soddisfazione dei suoi bisogni primari, come per esempio una sopraggiunta crisi economica nel Paese, l’aumento rapido del costo della vita, l’insoddisfazione sul lavoro, la perdita di legami positivi. In questo stato di precarietà, la distinzione tra «noi» e «loro» diviene una svalutazione di «loro»: in chiave psicologica (non sono intelligenti, ma pigri, fragili), in chiave morale (sono cattivi, egoisti, ribelli) e poi in chiave aggressiva (minano e colpiscono le nostre sicurezze). Non si odia chi è senza colpa; anzi, si presume che se lo sia meritato. «L’odio è più un atteggiamento che un’emozione, un atteggiamento fortemente cognitivo che richiede la concezione dell’altro come una persona nel vero senso della parola, come agente razionale con responsabilità morali e causali per le proprie azioni» (R. Sternberg ed. Psicologia dell’odio. Conoscerlo per superarlo. Erikson, Gardolo 2007, 204). Chi odia ed è violento si può anche illudere di perseguire con le proprie azioni valori morali positivi («Lo faccio per il tuo bene»). Una volta riuscito a darsi un’assoluzione morale, chi odia può convivere tranquillo con la propria coscienza e, pur essendo stato violento allo stadio, può ritornare a casa tranquillo e fare il coniuge affettuoso. Una risorsa fondamentale per frenare e placare l’odio è impedirgli di operare l’esclusione morale, ossia saper conservare la capacità di includere moralmente l’altro anche quando ci sono le occasioni e i motivi per non farlo.
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