L’uomo moderno ritiene di essere diventato “adulto, libero ed emancipato”; reclamando diritti di ogni genere e rifiutando i doveri legati alla propria condizione di creatura. Il superbo “signor qualunque” pretende di essere indipendente dalla società, dalla Chiesa e da Dio stesso, illudendosi di poter ottenere “pace e sicurezza” con le proprie forze.
Eppure quest’uomo è ormai nauseato, deluso, angosciato da questa sua pretesa indipendenza ed autosufficienza che lo lascia solo, vuoto e in balia delle correnti. In Francesco la sua ardente radicalità nel predicare e praticare il bene e nel condannare e combattere il male, accusa e contrasta quello spirito di compromesso così tipico della mentalità terza forzista: quella cioè secondo cui la prudenza imporrebbe di evitare sia l’estremismo cristiano che quello anticristiano, di eludere l’inevitabile alternativa tra il male e il bene scegliendo un male “moderato”, magari presentandolo come se fosse l’unico bene umanamente e concretamente possibile. La società moderna è dominata dalla idolatria delle umane conoscenze e capacità, dalla frenesia del sapere e del potere, dall’appagamento nel mondano e nell’effimero, dalla brama del piacere, del possesso e della comodità, dalla paura del dolore, della perdita e del sacrificio. Eppure questo apparente appagamento vitale cela una profonda insoddisfazione ed angoscia che si manifesta nei fenomeni dello smarrimento psicologico, della depressione e della tendenza all’autodistruzione; una diffusa “cultura” di morte tende ad imporre un culto della morte e promuove pratiche mortifere. Tutto dipende dal fatto che, essendo diventato schiavo dell’ossessione di sapere, potere e godere, l’uomo non sa più chi è, da dove viene, dove deve andare; di conseguenza non sa più nemmeno cosa vuole. L’uomo è davvero grandezza e miseria: è grandezza perché porta in sé l’immagine di Dio ed è oggetto del suo amore; è miseria perché può fare cattivo uso della libertà che è il suo grande privilegio, finendo per mettersi contro il suo Creatore. Francesco ci invita a questo cammino di conversione. Francesco, nel Testamento redatto negli ultimi mesi della sua esistenza, guarda ai suoi primi venticinque anni come ad un tempo in cui “era nei peccati” (cfr 2 Test 1; FF 110). Al di là delle singole manifestazioni, peccato era il suo concepire e organizzarsi una vita tutta centrata su di sé, inseguendo vani sogni di gloria terrena. Non gli mancava, quando era il “re delle feste” tra i giovani di Assisi (cfr 2 Cel I, 3, 7: FF 588), una naturale generosità d’animo. Ma questa era ancora ben lontana dall’amore cristiano che si dona senza riserve. Com’egli stesso ricorda, gli sembrava amaro vedere i lebbrosi. Il peccato gli impediva di dominare la ripugnanza fisica per riconoscere in loro altrettanti fratelli da amare. La conversione lo portò ad esercitare misericordia e gli ottenne insieme misericordia. Servire i lebbrosi, fino a baciarli, non fu solo un gesto di filantropia, una conversione, per così dire, “sociale”, ma una vera esperienza religiosa, comandata dall’iniziativa della grazia e dall’amore di Dio: “Il Signore – egli dice – mi condusse tra di loro” (2 Test 2: FF 110). Fu allora che l’amarezza si mutò in “dolcezza di anima e di corpo” (2 Test 3: FF 110). Sì, miei cari fratelli e sorelle, convertirci all’amore è passare dall’amarezza alla “dolcezza”, dalla tristezza alla gioia vera. L’uomo è veramente se stesso, e si realizza pienamente, nella misura in cui vive con Dio e di Dio, riconoscendolo e amandolo nei fratelli. Anche San Paolo si erge come testimone e banditore della grazia. Sulla via di Damasco, il volto radioso e la voce forte di Cristo lo avevano strappato al suo zelo violento di persecutore e avevano acceso in lui il nuovo zelo del Crocifisso, si unisce a Lui, adempie la legge. Portare Cristo, e con Cristo l’unico Dio, a tutte le genti era divenuta la sua missione. “Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20b). E come si può rispondere a questo amore, se non abbracciando Cristo Crocifisso, fino a vivere della sua stessa vita? Sono stato Crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20a). Parlando del suo essere Crocifisso con Cristo, San Paolo non solo accenna alla sua nuova nascita nel battesimo, ma a tutta la sua vita a servizio di Cristo. Nella Lettera ai Galati: “D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo” (6,17). È la prima volta, nella storia del cristianesimo, che appare la parola ‘stigmate di Gesù’. Nella disputa sul modo retto di vedere e di vivere il Vangelo, alla fine, non decidono gli argomenti nel nostro pensiero; decide la realtà della vita, la comunione vissuta e sofferta con Gesù, non solo nelle idee o nelle parole, ma fin nel profondo dell’esistenza, coinvolgendo anche il corpo, la carne. I lividi ricevuti in una lunga storia di passione sono la testimonianza della presenza della croce di Gesù nel corpo di San Paolo, sono le sue stigmate. Non è la circoncisione che lo salva: le stigmate sono la conseguenza del suo battesimo, l’espressione del suo morire con Gesù giorno per giorno, il segno sicuro del suo essere nuova creatura (cfr Gal 6,15). Paolo accenna, del resto, con l’applicazione della parola ‘stigmate’, all’uso antico di imprimere sulla pelle dello schiavo il sigillo del suo proprietario. Il servo era così ‘stigmatizzato’ come proprietà del suo padrone e stava sotto la sua protezione. Il segno della croce, iscritto in lunghe passioni sulla pelle di Paolo, è il suo vanto: lo legittima come vero servo di Gesù, protetto dall’amore del Signore. Francesco di Assisi ci riconsegna tutte queste parole di Paolo, con la forza della sua testimonianza. Da quanto poi la voce del Crocifisso di San Damiano gli mise in cuore il programma della sua vita: “Va Francesco, ripara la mia casa” (2 Cel I, 6, 10: FF 593), il suo cammino non fu che lo sforzo quotidiano di immedesimarsi con Cristo. Egli si innamorò di Cristo. Le piaghe del Crocifisso ferirono il suo cuore, prima di segnare il suo corpo sulla Verna. Egli poteva veramente dire con Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. A scanso di equivoci, è da notare che la misericordia di Gesù non si esprime mettendo tra parentesi la legge morale. Per Gesù, il bene è bene, il male è male. La misericordia non cambia i connotati del peccato, ma lo brucia in un fuoco di amore. Questo effetto purificante e sanante si realizza se c’è nell’uomo una corrispondenza di amore, che implica il riconoscimento della legge di Dio, il pentimento sincero, il proposito di una vita nuova. La vita di Francesco convertito è conversione a Cristo, fino al desiderio di “trasformarsi” in Lui, diventandone un’immagine compiuta, che spiega quel suo tipico vissuto, in virtù del quale egli ci appare così attuale anche rispetto a grandi temi del nostro tempo, quali la ricerca della pace, la salvaguardia della natura, la promozione del dialogo tra tutti gli uomini. Francesco è un vero maestro in queste cose. Francesco incarna profondamente questa verità “cristologica” che è alle radici dell’esistenza umana, del cosmo, della storia.
di don Salvatore Rinaldi
Rubrica "Fede e Società"
Articolo di lunedì 30 Settembre 2019
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