Perché sei venuto?

Il comportamento del cristiano è una precisa conseguenza della fede che lo distingue, in ultima analisi della stessa natura di Dio che egli è chiamato a imitare nella sua vita. “Dio è amore”, totalmente amore, semplicemente amore, nient’altro che amore. Dire Trinità significa dire Amore, dire Amore significa in definitiva dire Trinità.

Al vertice dell’intera creazione, l’uomo è pensato e formato come immagine di Dio. Il resto è somiglianza, lui solo può essere l’immagine. Per questo egli sente il bisogno di realizzarsi nell’apertura agli altri, nel dono di sé, nella solidarietà e nell’amore. Come in Dio, la persona è essenzialmente relazione, pro-esistenza, in verticale e in orizzontale. Il Dio del passato, anche del nostro passato, più che il Dio di Gesù Cristo, è così apparso il Dio della filosofia greca, il Dio del pensiero umano, il Dio delle nostre paure e delle nostre fantasie, il Dio di altre religioni. La teologia contemporanea è riuscita a mettere in evidenza e a comunicare con forza questa convinzione rivoluzionaria, imponendo sostanzialmente una revisione dell’intero patrimonio rivelato. Nel Vangelo di Luca 15,1-32 abbiamo la parabola dell’amore del padre, Gesù si rivolge direttamente a un pubblico che si rispecchia nella figura del fratello maggiore, “a gente, cioè, che si scandalizza dell’Evangelo”, che ha dimenticato il messaggio dei profeti e che si è fatto un concetto di Dio costretto nei brevi confini del proprio egoismo e della propria superficialità. “Dio è così- afferma con forza e piglio definitivo Gesù -, tanto buono, tanto clemente, tanto pieno di misericordia, tanto traboccante di amore”, da gioire e fare festa per il ritorno del figlio perduto, anzi ancora capace di uscire incontro al fratello invidioso per convincerlo a prendere parte anche lui alla gioia che sta inondando la casa paterna (Jeremias, Le parabole di Gesù, 160). È questo, e non altro, il Dio di Gesù Cristo. Il Dio delle parabole, il Dio narrato dal profeta di Nazareth, vera e vivente parabola di Dio. Su questa linea dobbiamo ora registrare i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti. Un Dio che non castiga, ma perdona, che rispetta la libertà dell’uomo anche quando questi domanda di allontanarsi da lui, che aspetta ansiosamente sul terrazzo della casa, scrutando l’orizzonte lontano, perché sa, o almeno spera, che il figlio prima o poi tornerà e non vuole perdere nemmeno un istante della gioia indescrivibile che proverà al suo ritorno. Tanto è felice quando lo vede da lontano che non gli concede nemmeno il tempo di recitare il “discorsetto” d’occasione preparato nel tempo della sofferenza e della decisione: “Padre ho peccato contro il cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati” (avv. 18-19). Il figlio è rimasto quello di prima, non ha perduto nulla, anzi ha forse qualcosa in più, la prova e il marchio della sofferenza; gli venga allora portato l’abito più bello che sostituisca quello sgualcito e macchiato dal peccato, gli venga dato l’anello al dito e i sandali ai piedi consumati dal lungo cammino, si ammazzi il vitello grasso, messo a parte proprio per lui, e si faccia festa con musica e danze, “perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (v.24). Il padre non soltanto ha compassione del figlio, ma avverte nel suo intimo un sommovimento delle viscere, il movimento tipico della donna che subisce una contrazione interna di dolore e di compassione, o meglio ancora, un movimento viscerale, quasi una ripetizione dell’atto generativo, come se il figlio fosse generato di nuovo. L’amore di Dio trasuda da tutte le pagine del Vangelo. Esso è il primo protagonista della rivoluzione in atto nella storia umana portata da Gesù. Il Regno è semplicemente il regno dell’amore. Ma l’intera vita di Gesù, azione e parole, “gesta et verba”, è una presentazione dell’amore di Dio verso l’umanità. Non si deve infatti dimenticare ultimamente e definitivamente all’umanità. Le parole “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9) vogliono sottolineare esattamente questa verità: in Gesù, in tutti i suoi movimenti e in tutti i suoi interventi, è presente l’insuperabile comunicazione di Dio: dopo di lui, il Padre non ha altro da dire, si è espresso a sufficienza. I suoi gesti sono eloquenti come le parole: parole e gesti si uniscono insieme per dire a tutti cos’è l’amore, cioè Dio, quali sono le sue leggi, le sue manifestazioni, la sua logica, il suo galateo. L’uomo di oggi, l’uomo nato dalla libertà dell’illuminismo, che ha paura di Dio perché vede in lui un ostacolo alla sua libera espansione, anzi alla sua stessa esistenza, ha paura di un fantasma che si è creato con le sue stesse mani. “Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,29). Ancora il “se” della libertà, a cui è sospesa l’offerta di salvezza. Non è Dio che esclude, ma è l’uomo che si autoesclude.

 

di don Salvatore Rinaldi

Rubrica "Fede e Società"

Articolo di lunedì 18 Dicembre 2019

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