Fede nella risurrezione

Il corpo glorioso del Signore risorto, come si legge nei Vangeli, risulta trasfigurato e glorioso, tanto che i discepoli di Emmaus non lo riconoscono, se non allorché spezza il pane con loro e gli stessi apostoli stentano a individuarne l’identità; allo stesso tempo, però, si presenta in continuità con quella realtà somatica che ha vissuto Gesù nella sua esistenza storica. Da questo punto di vista è particolarmente significativo il fatto che Egli non intenda presentarsi come un fantasma, ma condivida il cibo con i suoi discepoli.

Non solo, ma la continuità con la sua storia, anche di sofferenza e di morte, emerge in maniera tutta particolare nell’episodio evangelico dell’apparizione a Tommaso, dove il Signore esibisce le stimmate della sua passione, perché il discepolo da incredulo diventi credente. Che l’uomo sia dotato di una dimensione spirituale immortale è acquisizione filosofica, chiaramente presente nel pensiero greco (si pensi al Socrate di Platone), di cui tuttavia abbiamo tracce anche nella Scrittura (per esempio, nel libro della Sapienza). In quanto tale, questa verità non è di natura propriamente rivelata, ma raggiungibile dalla ragione umana, allorché questa si esercita intorno alle grandi questioni: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?», ossia allorché si esprime filosoficamente. In questo senso la pura e semplice razionalità scientifica, sia pure nell’orizzonte delle odierne neuroscienze, da sola non ci dice nulla a riguardo, ma può sostenere argomentazioni filosofiche e antropologiche su questi argomenti. La risurrezione, che le Scritture ci rivelano a proposito di Cristo e del nostro destino futuro, riguarda tutto l’uomo e non solamente la sua dimensione corporea, che vi è inclusa. In questo senso il dato biblico può felicemente coniugarsi con la più autentica riflessione filosofica, con la quale la nostra fede è chiamata costantemente a misurarsi, come anche con le sempre affascinanti scoperte della scienza. Ai teologi il compito di articolare riflessioni capaci di includere anche il dato scientifico e la speculazione filosofica. Il corpo del Risorto, che ora vive oltre la storia, nella metastoria, e la cui natura risulta misteriosa se rapportata alla nostra esperienza corporea, non costituisce un quarto elemento rispetto alle tre divine persone (ipostasi), bensì afferisce alla persona del Figlio, ossia possiamo dire che è il corpo del Logos, che in esso si è incarnato. Dunque, le persone divine restano tre in un’unica natura, perché Dio è uno solo e non vi può essere che un solo Dio, ossia l’Amore che Egli vive e sperimenta nella sua eternità. A Tommaso Didimo il Risorto si presenta con i segni della passione (= stigmate) e, grazie alla percezione di essi, viene riconosciuto. Con questo richiamo alle tracce della passione nel Risorto si vuol dire che la risurrezione del Signore non va intesa come una sorta di colpo di spugna, che ha facilmente eliminato la sofferenza, il dolore, il male che Gesù ha subito e che continua ad abitare le nostre esistenze. Con la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù le lacerazioni, le ingiustizie, le sofferenze che viviamo nella storia si innestano nella vita divina e ricevono un senso proprio perché vissute nel dolore infinito del Figlio. Se Cristo non fosse risorto, il dolore innocente rimarrebbe insensato e sarebbe assurdo. Ma la vittoria sul male in tutte le sue forme, che Egli ha realizzato, non sarà per noi una facile consolazione (tanto poi risorgeremo), in quanto, insieme alla fede in Lui, siamo chiamati a lavorare quotidianamente perché, per quanto dipende da noi, il male venga sconfitto nella nostra vita quotidiana. «Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16, 16). Il messaggio del Nuovo Testamento esprime con chiarezza il fatto che è la fede che salva. Questa fede si traduce in opere di carità, altrimenti risulta sterile. Le opere, anche buone, senza la fede indicherebbero che ci salviamo da soli e che non è Dio a salvarci. Bisogna tuttavia aggiungere che non sempre la fede è esplicita e formalizzata, ma che può risultare anche implicita e nascosta in quanti compiono opere buone, anche perché l’uomo da solo e senza l’aiuto di Dio è tanto incline al male da esserne schiavo e soggetto a causa del peccato originale. La nostra fede non riguarda il fatto che l’uomo è dotato di uno spirito immortale, che sopravvive alla sua morte fisica. Questa verità era stata ben percepita dal migliore pensiero filosofico degli antichi greci (si pensi a Platone e ai suoi dialoghi socratici). Per il cristiano questa verità è inclusa nella sua fede nella risurrezione dei morti, che poggia sulla risurrezione del Signore Gesù. Né dobbiamo pensare alle realtà eterne come il paradiso e l’inferno quasi fossero dei luoghi: si tratta invece di stati o situazioni di salvezza o di perdizione che rendono eterna la nostra condizione di salvati o di dannati. Il che significa che le nostre azioni, che si svolgono in questa vita e nella storia, hanno un valore eterno e che in esse si decide il nostro destino. La visione biblica del mondo e dell’uomo non è quindi percorsa dal dualismo pessimistico, e il messaggio cristiano non è paragonabile a una sorta di spiritualismo che, per affermarsi, sia chiamato a negare e sopprimere la dimensione materiale e fisica dell’esistenza. Più che all’immortalità, secondo il Nuovo Testamento, siamo chiamati alla risurrezione, che riguarda tutto l’uomo: anima e corpo, spirito e materia, soggetto incarnato.

 

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