Vivere l'emergenza del coronavirus

Il panico è una forma di ansia generalizzata che spinge a comportamenti immediati, ma irrazionali e per lo più distruttivi. È un retaggio del nostro patrimonio biologico, legato alla paura, che avverte in tempi brevissimi un pericolo prima che intervengano i processi riflessivi. Il panico accresce la gravità dei problemi, come si è potuto notare in maniera evidente in occasione delle fughe precipitose da una regione all’altra di un Paese. Tutto ciò, oltre a portare a una ingiustificata scarsità delle risorse, contribuisce a diffondere in maniera esponenziale il contagio, creando oltretutto tensioni e rivalità tra le persone.

Chi è in quarantena o in cura a casa può provare attacchi di ansia, sentirsi in colpa di fronte alla possibilità di aver contagiato i propri cari o gli amici. E per i parenti tutto ciò è motivo di comprensibile angoscia. È importante che questi stati d’animo vengano affrontati ricorrendo a un supporto psicologico. Anche un breve colloquio può essere importante per ridurre l’ansia e rileggere il proprio vissuto in una maniera più rispettosa della complessità. La prudenza a sua volta rafforza la pazienza, la virtù che rende possibile governare se stessi e prendere in mano la situazione. La pazienza sa comandare alla paura, alla fretta, alla superficialità, rendendo capaci di attendere e dilatando lo spazio di libertà a disposizione. Il proliferare della paura nelle nostre società è dovuta anche al fatto che si è smarrito il senso dell’attesa. Alla pazienza è legato un altro aspetto, indispensabile per la qualità della vita: la proattività. Uno dei grandi nemici della vita umana è la passività: subire gli avvenimenti senza reagire. La proattività è l’atteggiamento esattamente contrario: è la capacità di guardare in faccia il problema e chiedersi che cosa si possa fare. Un’informazione sana rende più consapevoli del potere a disposizione e favorisce la resilienza, la capacità di affrontare lo stress senza esserne sopraffatti, esprimendo l’aggressività non in modo vittimistico, ma come forza d’animo propositiva che abilita a superare le difficoltà. Tre aspetti che sono di aiuto nelle situazioni problematiche: l’impegno, come capacità di coinvolgimento: di fronte al problema, invece di ripiegarsi passivamente su di sé, ci si rimbocca le maniche e si cerca di portare il proprio contributo, sapendo che potrà essere importante per qualcuno; il controllo, prendere nelle proprie mani le redini della situazione nella convinzione di avere sempre un potere da esercitare, grande o piccolo non importa; il gusto per la sfida, che consente di vivere le difficoltà come possibili opportunità a disposizione e non solo come una minaccia, impegnandosi in esse, invece di limitarsi a rimpiangere il tempo passato. Sono tre aspetti legati alla consapevolezza, che possono cioè essere educati e potenziati. Un altro elemento importante, in grado di favorire la resilienza, è la presenza di significative relazioni affettive. Un contesto affettivamente stabile e improntato alla stima e all’empatia aiuta a esplicitare possibili doti e capacità che risultano fondamentali per affrontare gli eventi tragici (Cfr A. Oliverio Ferraris, Milano, Bur, 2003, pp. 78-81). «Il supporto della comunità, dei valori e delle tradizioni in essa presenti rafforza i suoi appartenenti e smentisce il postulato individualistico dell’uomo che “si fa da sé”. Risulta invece molto più dannosa per la salute una vita solitaria iperprotetta, senza grandi problemi, rispetto a un evento tragico, ma affrontato con il supporto di legami forti e profondi. Se io ho fiducia in te e spero di stare meglio, il mio cervello inizia a produrre degli antidolorifici naturali e il dolore diminuisce» (F. Benedetti, La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Milano, Mondadori, 2018, pp. 11 s.). Certo, aggiunge l’autore, la potenza della parola si mostra anche in negativo: essa può fare male in maniera molto più devastante di un’azione fisica, fino a uccidere. Lo stesso può dirsi per le relazioni di aiuto a chi soffre: ciò che fa la differenza, più che la competenza e l’esperienza, è la capacità di instaurare relazioni empatiche e compassionevoli. La qualità delle relazioni e una profonda vita interiore sono aiuti potenti contro il male, anche in assenza di un’adeguata perizia medica. E sono motivo di grande aiuto per gli altri. Due psichiatri tedeschi, Hans Strupp e Suzanne Hadley, hanno messo a confronto gruppi di malati seguiti rispettivamente da psicoterapeuti molto esperti (con almeno 20 anni di professione) e insegnanti di materie varie (matematica, filosofia, letteratura, storia, musica), privi di esperienza terapeutica, ma con grandi capacità empatiche. Entrami i gruppi hanno tratto benefici quando la relazione era all’insegna del calore umano e dell’empatia; senza di esse, la mera preparazione ed esperienza rischiava di andare a scapito della motivazione e della speranza di migliorare (Cfr H. Strupp – S. Hadley, “Specific vs nonspecific factors in psychotherapy. A controlled study of outcome”, in Archives of General Psychiatry 36 (1979) pp. 1125-1136). Niente può compensare il valore delle relazioni autentiche: esse sono una forma potente di protezione di fronte alle minacce, e una possibilità di esprimere il meglio di sé. Ogni persona sarà ricordata soprattutto per ciò che ha amato, più che per ciò che ha fatto. Papa Francesco, interpellato da un quotidiano sul possibile significato dell’emergenza in corso, afferma: «Dobbiamo ritrovare la concretezza delle piccole cose, delle piccole attenzioni da avere verso chi ci sta vicino, famigliari, amici. Capire che nelle piccole cose c’è il nostro tesoro. Ci sono gesti minimi, che a volte si perdono nell’anonimato della quotidianità, gesti di tenerezza, di affetto, di compassione, che tuttavia sono decisivi, importanti. Ad esempio, un piatto caldo, una carezza, un abbraccio, una telefonata… Sono gesti familiari di attenzione ai dettagli di ogni giorno che fanno sì che la vita abbia senso e che vi sia comunione e comunicazione fra noi» (Papa Francesco, “Non sprecare questi giorni difficili”, in La Repubblica, 18 marzo 2020).

 

 di don Salvatore Rinaldi

Articolo di lunedì 27 Aprile 2020

Rubrica "Fede e Società"

 

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