Vi è confusione spesso evidente tra perfezione e santità. Confondere la santità con la perfezione vuol dire autocondannarsi a un’eterna insoddisfazione verso noi stessi, perché la perfezione rappresenta qualcosa dì impossibile, un obbligo improbabile, e alla fine un’infelicità suprema. Perfezione è termine umano, indica una realtà completa e compiuta, intatta e carente di nulla in tutti i suoi aspetti, ovvero una realtà che non esiste. Protagonista della perfezione è il singolo, la cui buona volontà non è in dubbio, con i suoi sforzi e le sue conquiste, di cui s’attribuisce il merito.
È lui in ogni caso che prende l’iniziativa di un cammino che sente alla sua portata. Suo obiettivo è la sconfitta e l’eliminazione di immaturità e debolezze. Il motivo che lo spinge è l’immagine ideale di sé, forse per smentire qualsiasi sensazione (anche inconscia) contraria. Punto d’arrivo è giungere al massimo di sé, con attenzione soprattutto alla condotta. L’aspirante perfetto non sopporta imperfezioni, che sente come umilianti, e non capisce cosa voglia dire integrazione del male (che semmai tende ad escludere), di conseguenza non ha un gran bisogno di misericordia ed è insofferente al limite altrui. Tende a sentirsi migliore degli altri e gradito a Dio, utile per la sua causa, ma senza mai permettersi la libertà di fidarsi-affidarsi e il lusso di ridere di sé, come fa chi non si prende troppo sul serio. Di fatto la sua identità è parziale, poiché tende a vivere solo con la parte ritenuta migliore di sé, quella che risponde ai suoi progetti o a quanto pensa gli altri si aspettino da lui. La perfezione, umiliata dal peccato e dalle debolezze, tende così a chiudere la persona dentro i sé, dentro un proprio tribunale, in cui il perfezionista è sempre più il giudice di se stesso, che rimprovera e pretende sempre più da sé, trova sempre qualcosa per cui autocondannarsi, a volte con seguito di ossessioni e scrupoli. Il poveretto lotta, ma in un contesto di amarezza crescente, con sé e il mondo intero. E mentre sparisce l’amore (non è né all’origine né al termine d’un cammino di perfezione), sia verso sé che verso il prossimo, il perfezionista si sente sempre in colpa, mortificato nella (non) stima di sé dalla sensazione di aver fallito. È come un esaurimento progressivo: l’energia è sprecata, infatti, quando l’impegno non è motivato - alimentato dall’amore, e tutto diventa più difficile e deprimente (a cominciare dalla persona stessa). Ecco perché non di rado la tensione di perfezione conduce, attraverso questo percorso di delusione e frustrazione, di affaticamento e di oppressione, all’abbandono della lotta, quasi per sfinimento e con la sensazione d’essere stato tradito. E - quel che è più strano - alla decisione di passare dall’altra parte, ovvero alla mediocrità. Ma, in ogni caso, senza trovare la gioia. Il quadro può sembrare eccessivo (e lo è volutamente per evidenziare la differenza con quanto segue), ma la dinamica evolutiva di un cammino di perfezione è sostanzialmente questa. Completamente diverso è il cammino di chi si sente anticipato da un dono ricevuto, e chiamato a rispondere a una Volontà buona che l’ha voluto esistente. Qui inizia il cammino di santità, quale umile tentativo di rispondere a un amore, che sarà sempre più grande della risposta stessa. In un dialogo continuo che regala le due certezze più importanti e determinanti per l’uomo: di esser amato e di esser capace d’amare. Al tempo stesso, proprio la grandezza dell’amore ricevuto non solo consente al soggetto di constatare l’inadeguatezza e povertà della sua risposta, ma di farlo senza deprimersi, perché è sicuro di quell’amore, come roccia che gli dà forza e stabilità, come abbraccio che lo avvolge teneramente, come sicurezza di potersi fidare, dell’Altro e degli altri. Anzi, più scopre il proprio male, più sperimenta su di sé l’amore di misericordia, e con questa stessa misericordia guarda a se medesimo: se la perfezione esclude la coscienza del peccato, il santo si sente invece profondamente peccatore; se chi si chiude nel proprio mondo e si sente artefice delle proprie conquiste si espone anche alla delusione e alla colpa di scoprirsi poi incapace, chi invece si sa debole e impotente s’apre alla potenza della grazia e fa del suo nulla il luogo della presenza di un amore senza limiti, cui abbandonarsi serenamente.
di don Salvatore Rinaldi
Articolo di lunedì 20 Luglio 2020
Rubrica "Fede e Società"
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