La morte del prossimo

Esistere è occupare uno spazio e abitare dentro lo spazio. Nel linguaggio comune si dice: «Dimmi con chi stai e ti dirò chi sei», detto popolare che potrebbe essere parafrasato molto bene con: «Dimmi come impieghi lo spazio e ti dirò chi sei». È proprio vero! L’impiego dello spazio riflette ciò che ciascuno di noi realmente è. In esso rispecchiamo intenzioni, significati, sentimenti, progetti e scelte personali. Tra lo spazio e la persona vi è un rapporto di interdipendenza reciproca.

Lo spazio ci costruisce e noi costruiamo lo spazio. Il nostro modo di collocarci nello spazio è guidato dall’intenzionalità e, a seconda del nostro modo di porci in relazione, percepiamo l’«altro» fisico  psicologico come vicino, lontano, chiuso, aperto, sicuro, soffocante, pieno o vuoto, luminoso o scuro. Ma soprattutto il regolare le distanze è una dimensione affettiva: colloco vicino a me qualcosa che mi piace e mi fa sentire a mio agio o qualcuno che amo; tengo distante ciò che reputo inutile e minaccioso; esprimo i miei sentimenti nell’unione e nella separazione, nell’essere dislocato sopra o sotto. Sorge una domanda: la persona oggi è ancora capace di porsi in relazione con l’altro/a come una risorsa, un dono, piuttosto ch come minaccia, un pericolo? Oggi il tema delle relazioni è sulla bocca di tutti. Tutti sono alla ricerca di amicizie, di stare insieme, di creare comunità o gruppo… La ricerca è spesso su relazioni virtuali: pensiamo al successo di Facebook raggiunto in poco tempo. Di fatto, se anche abbiamo il coraggio di instaurare relazioni reali, a motivo della complessità e della difficoltà delle relazioni stesse, esse non producono solo gioia, ma anche paura e sofferenza. Sembra allora che la persona che vive nella post-modernità non cerchi relazioni durevoli, ma desideri piuttosto relazioni leggere, così da poterle rinegoziare in qualunque momento. Il piacere dello stare insieme si accompagna molto spesso all’orrore del cadere in trappola. Qui si collocano le relazioni virtuali, che si attivano facilmente e altrettanto facilmente finiscono. Esse, infatti, da un lato costringono ad andare sempre più di corsa nelle ricerca dell’incontro maggiormente soddisfacente e appagante, dall’altro precipitano in un drammatico vuoto esistenziale. La relazione, oggi, sia pervasa da una forte paura, riflesso di un’insicurezza invincibile, che deriva dall’incapacità di riconoscere che la relazione con l’altra persona costituisce la condizione senza la quale non è possibile nemmeno il riconoscimento e l’affermazione della propria identità. Questo «altro», infatti, mi obbliga a rimettermi in discussione, mi chiama ad un confronto a cui non posso sottrarmi. La società contemporanea ci rende coscienti del desiderio di relazione e nello stesso tempo del nostro isolamento. Sempre più ci rendiamo conto di vivere in un mondo in cui anche i rapporti più stretti partecipano alla competizione e alla rivalità. È proprio la situazione delle persone oggi: quando la scoperta dell’altro diventa la scoperta del negativo la relazione si incrina. Un incontro con l’altro innocuo, senza ferita, è anche un incontro senza gioia. Questa è la grande illusione dell’epoca postmoderna: oggi si vuole evitare a tutti i costi la ferita nei rapporti e si arriva quindi ad una solitudine mai sperimentata prima, a relazioni solo virtuali e a volte così superficiali che producono insoddisfazione e vuoto! Nel passato, la possibilità della vita in comune era profondamente legata all’idea del sacrificio e della sofferenza. Nello stesso tempo era chiaro che per essere felici bisognava avere degli amici e dei rapporti di reciprocità. Perciò, la vita felice ha una natura ambivalente: l’altro è per me gioia e dolore, è l’unica possibilità per una vera felicità, ma è anche colui/colei da cui dipende la mia infelicità. D’altra parte, se per evitare questa vulnerabilità mi rifugio nella solitudine e anche nella contemplazione, al riparo dagli altri, la vita non fiorisce in pienezza. Il filosofo ebreo Martin  Buber dà un valore ontologico alla relazione: afferma che esiste solo «l’Io in relazione. All’inizio è la relazione». Per lui, la relazione Io-Tu è definita dallo «stare», «essere» nella relazione (non nel «fare» qualcosa insieme). L’essere umano è fatto per relazionarsi, con un oggetto dato (persone, cose, idee) verso il quale si trascende. Tale oggetto è costitutivo del suo io. Non conta ciò che si dice, che cosa si scambia o il perché si fa così, ma la disponibilità reciproca a lasciarsi trasformare e ri-definire (Cencini - A. Manenti, Psicologia  teologia, cit., p. 246-247). La persona umana si costruisce attraverso la relazione, ma non può restarvi intrappolata. Occorre un «terzo» distinto dai due. «Questo terzo condiviso rappresenta davvero l’alternativa alla complementarietà duale (…) impedisce che uno dei due domini sull’altro: entrambi si arrendono al terzo a cui ambedue riconoscono di appartenere». Per Ceragioli, «il terzo è affidabile se manifesta la propria verità come dedizione all’uomo… Insomma una terzietà che ha il volto dell’agape e dà lietamente la vita» (F. Ceragioli, Il cielo aperto, cit., p. 133). Il dono di sé può avvenire solo se la persona si possiede, cioè se conosce se stessa in modo realistico, tenendo sempre insieme doni e limiti. Le persone disturbate, che presentano patologie gravi, non possono donare se stesse in modo pieno, per la limitazione della loro libertà effettiva. Raggiungiamo il colmo della felicità quando ci dimentichiamo di noi stessi. La gioia è estatica. Ciò significa, alla lettera, stare al di fuori di se stessi. Se ti preoccupi per tutto il tempo di capire se sei felice o no, non sarai capace di essere felice. Sarai troppo concentrato su te stesso. Lascia perdere la tua felicità, prenditi cura di quella di altre persone e sarai più felice di quanto tu possa immaginare (Radcliffe, Il bordo dl mistero, EMI, Bologna 2016 p.83).

 

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