Necessaria una preparazione

In un colloquio con una persona ho raccolto questa testimonianza: Ho tanta voglia di fare. Spero che l’energia che sento dentro mi spinga a reagire in positivo! Intanto non posso fare altro che ringraziare Dio per ciò che sono. Voglio cercare di portare avanti i vari impegni che mi sono assunta, in maniera assidua. Dipende da me e dalla mia costanza e forza di volontà. Sto riflettendo anche sulla «responsabilità dell’illusione».

C’è chi è convinto che se una persona si illude la «colpa» è di colui che gli crea il bisogno di «credere in qualcosa che non è!». È un argomento che mi sta molto a cuore poiché mi sono accorta di recente che, per la paura inconscia di procurarmi illusioni, ho innalzato delle barriere difensive nei confronti di uomini o ragazzi che non conosco o che non mi conoscono. Questo è dovuto anche al fatto che, ora come ora, voglio stare sola perché sto veramente bene… Dopo l’incontro gli ho risposto: L’intimità con se stessi è una dimensione importantissima della vita affettiva; non è alternativa a essa, ma ne è l’anima nascosta. La solitudine dell’adolescente Adamo, prima della conoscenza piena di stupore della giovane Eva, ne è una conferma anche sul piano semplicemente psicologico o culturale. La fretta, indotta dalla cultura consumistica odierna, nel voler trovare l’anima gemella può rivelare una debolezza e talora una latente patologia della persona in se stessa. Questo dare per scontato di saper amare l’altro quando non si è ancora imparato ad amare se stesso sa molto di presunzione. La paura della solitudine può nascondere tante cose, compresa la vergogna per il proprio limite e addirittura la paura di se stessi. La solitudine non è una malattia da curare, ma uno stato dell’essere da conservare sano, anche in un contesto di vita di coppia. Solitudine, intesa come intimità con se stessi. È confortante avere conferma anche dalle scienze umane che «star bene da soli» è posizione irrinunciabile di partenza per l’eventuale «star bene in coppia». Mi piace riportare un brano di Gianfranco Ravasi: «Apparentemente che cosa c’è di più facile del ritirarsi in se stessi e stare finalmente in pace? Ma ecco che, dopo la prima euforia, scattano sensazioni impreviste di noia, di vuoto, di stanchezza, persino di paura. Ha quindi ragione il grande Montaigne (1533-1592), pensatore e scrittore francese, quando nei suoi Saggi (I, 33) ci ammonisce a “prepararci a riceverci” nella solitudine. Se non si è in pace con se stessi, se non si è abituati alla riflessione, se non si pratica la conoscenza di sé e l’esame di coscienza, è facile rigettare il silenzio e la quiete e ritornare subito nel frastuono e nella compagnia. Giustamente lo psicanalista A. Phillips osservava in un suo saggio Sul rischio e la solitudine (1987) che “la prima esperienza di solitudine è carica di pericolo come la prima esperienza dell’altro”. C’è, infatti, una solitudine che, anziché essere compagnia con se stessi, diventa solo isolamento e solipsismo che imprigiona. È per questo che Qoelet grida: “Guai all’uomo solo” (4, 10). È, dunque, necessaria una preparazione per evitare ogni smarrimento. E questa preparazione deve iniziare già nel tempo della socialità, durante tutto l’anno, ritagliandosi ogni giorno una piccola oasi di silenzio, in cui compiere l’esame di coscienza… Il brano di Montaigne ammonisce così: “ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi. Sarebbe una pazzia affidarvi a voi stessi, se non vi sapete governare”. C’è modo di fallire nella solitudine come nella compagnia». Considerazione che offro a te lettore: si dice che nessun nasce «imparato» e di conseguenza si può anche dedurre che nessuno nasca «insegnante». Da qui la necessità di una buona dose di umiltà in grado di far incontrare i due innamorati al livello dell’essere «discenti» (cioè apprendisti). Quanta tensione in quei rapporti d’amore dove, spesso inconsciamente, l’uno vuol fare da insegnante all’altro, anziché insieme sedersi da diligenti allievi alla docenza dell’amore. Si impara ad amare dall’amore… e l’unico equilibrio consentito è quello di un dinamico alternarsi di apprendimento e di insegnamento, di discenza e di docenza dovuto alla oggettiva disparità di partenza dei due innamorati. Tale equilibrio dell’essere, alternativamente e allo stesso tempo, discenti e docenti è delicatissimo (come tutti gli equilibri) e si può perdere allorquando c’è il predominio di un «io» sulle esigenze della «relazione»; quando cioè si verifica una curiosa e tragica simmetria tra l’atteggiamento di puntigliosa voglia di insegnare da una parte e l’atteggiamento di riottosa non voglia di apprendere dall’altra. Tale equilibrio è costituito come sempre dalle buone intenzioni coniugate con corrette e sane conoscenze. Lasciare andare a spasso da sole le buone intenzioni è rischioso. Si rischia di usare mezzi evidentemente sbagliati per ottenere fini buoni e di vivere una relazione acidula e stizzosa per insegnare la tenerezza.

 

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