Abbi pietà di me

Possiamo parlare di peccato solo in un contesto religioso e dentro la relazione dell’uomo con Dio. Di fronte a Dio il credente definisce se stesso non solo come figlio amato, ma anche come figlio perdonato. «Credo […] la remissione dei peccati» (Simbolo degli apostoli); «Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati» (Simbolo niceno-costantinopolitano). Sono parole impegnative, ma che una abitudine porta a proclamare senza comprendere a fondo il significato.

 

Il giubileo della misericordia, voluto da papa Francesco (2015-2016) ha ricordato a tutta la chiesa il vero volto del Dio di Gesù Cristo spesso tradito da quelle immagini di un Dio giudice e castigatore, che molti si portano dietro fin dall’infanzia. Se papa Giovanni II parlava del secolarismo che propone un umanesimo senza Dio che cancella le basi stesse del peccato, papa Francesco parla di «negazione di ogni trascendenza che ha prodotto una crescente deformazione etica, un indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un progressivo aumento del relativismo, che danno luogo a un disorientamento generalizzato». Oggi vi è il pregiudizio che se vogliamo valorizzare l’uomo bisogna togliere spazio a Dio e, viceversa, che il primato di Dio comporti necessariamente una svalutazione dell’umano. E così nell’umanesimo di oggi il termine «peccato» appare fuori moda, sconveniente, espressione di vecchi tabù o retaggio di un tempo passato abitato da paure che la civiltà moderna sta cancellando sempre più. Le scienze umane hanno favorito una salutare purificazione del tema del peccato distinguendolo dal senso di colpa, ma hanno anche messo al centro l’anelito dell’uomo a «star bene» rispetto alla ricerca di un «bene» che non sempre coincide con il proprio benessere. La scoperta dell’inconscio e di tante ferite che tutti ci portiamo dentro fin dalla nostra infanzia hanno ridimensionato molto il concetto di responsabilità personale e i condizionamenti dell’ambiente hanno fatto il resto. L’albero della conoscenza del bene e del male è il limite che Dio pone: non è possibile all’uomo possedere il sapere stesso di Dio. Ma per l’uomo questo limite diventa un po’ alla volta insopportabile e il serpente insinua che Dio voglia trattenere per sé il meglio della creazione. Nonostante la trasgressione della prima coppia Dio smentisce il serpente perché non fa morire nessuno dei due, ma con un gesto di pietas ricopre la loro nudità con delle tuniche. «Sono un peccatore». Nessuna funzione, nessun genere letterario, come afferma papa Francesco, ma la consapevolezza propria del credente che si confronta con le esigenze del vangelo e si riconosce sempre “irregolare” anche quando esteriormente agisce bene. L’uomo contemporaneo “sbaglia” e può arrivare a dire: «Ho sbagliato». Il credente, invece, che vive una relazione con Dio, “pecca” e non può non dire: «Ho peccato, abbi pietà di me» (cf. Lc 18,13). Riconoscere di essere peccatori è segno di una vita di fede autentica perché se la vita cristiana è prima di tutto una relazione tra il credente e Dio, riconoscersi peccatori significa mettersi davanti a Dio nella verità di noi stessi. «Signore, tu mi scruti e mi conosci», recita il Sal 139,1, e mettersi davanti a Dio così, genera la vera pace. Il discepolo inizia la sua giornata pregando: «O Dio, vieni a salvarmi» (Sal 70,2). Dove manca Dio può esserci il tradimento di alcuni valori, la negazione dell’altro e i suoi diritti, la superbia, l’egoismo e l’orgoglio umano, ma solo indirettamente possiamo parlare di peccato. È proprio l’incontro con l’abbraccio accogliente e misericordioso di Dio che fa diventare il figliol prodigo del vangelo (cf. Lc 15,11-32) consapevole del proprio peccato, che in quel momento ha i tratti di un rifiuto dell’amore del Padre. È l’incontro con Dio che ci porta a dire sia che siamo figli amati, ma anche che siamo figli perdonati. Perdonare non è dimenticare, ma è il contrario dell’oblio; si tratta di un dono eccedente che supera la giustizia senza negarla. Perdonare è una scelta come lo è l’amore quando va oltre la spontaneità dell’innamoramento; è l’atto morale con cui si rinuncia a ogni forma di vendetta. Se è inevitabile per l’essere umano ricordare il male subito, il perdono è un lungo percorso per integrare e superare l’offesa ricevuta con un atto d’amore gratuito e la volontà di ricostruire una relazione ferita. Il perdono dato troppo velocemente volendo superare anche la necessità di ruminare, elaborare, lasciar decantare, rischia di essere un affronto alla giustizia verso se stessi e anche verso colui che si vuole perdonare. Se la perdita del senso del peccato è legata al contesto sociale in cui siamo immersi, la strada per recuperarlo non è quella di un ritorno alla denuncia e alla minaccia dell’inferno, ma della cura di un’autentica relazione dell’uomo con Dio. Quando più cresce questa relazione tanto più matura nel credente la consapevolezza di essere un figlio amato ma anche un peccatore perdonato.

 

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