Al bene comune si è anteposto il proprio, e se il Covid ci ha mostrato che solo nell’appartenenza a un corpo solidale c’è il vantaggio di tutti, affidando all’aiuto degli altri la propria inevitabile insufficienza, è ormai irresistibile il richiamo di chi promette una libertà assoluta, sempre, fino alle conseguenze ultime. Come fossimo soli al mondo.
La luce abbagliante della libertà nasconde il suo oggetto, la morte e tutto ciò che significa quando si arriva a chiederla: solitudine, indifferenza, abbandono, cure negate, tacito invito collettivo a farsi da parte… Spostata l’attenzione verso la scelta insindacabile su di sé, spariscono numerose questioni che però non si possono ignorare: le cure palliative e la terapia del dolore sinora accessibili a una esigua minoranza di italiani, le strutture sanitarie locali troppo spesso pesantemente deficitarie rispetto alla presente domanda di assistenza, l’estendersi della popolazione con più patologie di lungo periodo, i costi di un sistema sanitario che deve farsi carico di domande crescenti fino a diventare insostenibile per i conti pubblici, l’età media che si allunga insieme alla sua scia di malattie degenerative, la frammentazione della società che isola un gran numero di anziani e famiglie con disabili, la persuasione che solo la salute sia un bene e un valore, e la malattia invece una specie di maledizione… È a questi nodi umani e ai diritti che evocano e reclamano che bisogna volgere l’attenzione degli italiani, anziché convincerli che la soluzione sia la libertà di farla finita. Sarebbe una grande, corale campagna di civiltà e di vita, una stagione di diritti per i più fragili, la nuova rivoluzione del samaritano che si ferma a soccorrere il bisognoso, e di certo non lo finisce per assecondare la sua angoscia. Che diritto è quello di morire se non un grido disperato che reclama di spegnere una vita fattasi insopportabile? Un Paese come il nostro, con la fibra umanitaria e altruista che ancora lo anima, deve farsi vicino a questo dolore vasto e diffuso con ogni energia, guardandosi bene dal cedere al marketing della morte spacciata per estrema forma di libertà. Al bivio dell’eutanasia c’è una strada che ci mantiene umani, prossimi gli uni degli altri, e un’altra che varca irrevocabilmente la soglia nera oltre la quale la morte vale quanto la vita, con medici e infermieri stipendiati dallo Stato che la procurano come fosse una terapia, solo con un protocollo diverso. Una società che già oggi seleziona nei fatti gli inefficienti e i costosi rischia di sfigurare con un colpo di penna il suo volto, rottamando con fare noncurante millenni di repulsione per l’omicidio, fosse pure di chi lo chiede credendolo la soluzione ai suoi drammi. In tutto questo scenario, i giovani scontano la fatica di fare i conti con il dolore e la morte che noi adulti abbiamo cercato di far sparire accuratamente dalla loro esperienza di vita. Il risultato di questo vuoto educativo è la repulsione verso uno spettro ingovernabile: meglio un’iniezione di pentobarbital (la stessa sostanza per eseguire le condanne a morte) che lo strazio di una sofferenza apparentemente insensata, come una condizione umana fallita, un guasto nel sistema. Come bioeticista vorrei aggiungere che «i radicali, non soddisfatti della richiesta di depenalizzare il suicidio assistito, che comunque prevedeva verifiche da parte del Ssn, puntano ora alla depenalizzazione dell’omicidio diretto di una persona, senza alcun controllo o giustificazione medica, nelle condizioni della sua massima debolezza anche psicologica». È «inaccettabile» la rimozione di «uno dei principi fondati del nostro ordinamento», cioè «l’indisponibilità della vita umana». «Certo, costa di più investire su ricerca scientifica al fine di ampliare le possibilità di terapie, piuttosto che eliminare a monte il “problema”, cioè il paziente», ma «compito di uno Stato è aiutare a vivere, non a morire».
di don Salvatore Rinaldi
Articolo di lunedì 6 Settembre 2021
Rubrica "Fede e Società"
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