Dobbiamo riconoscere che i giovani molto spesso sono cristiani quasi per caso, perché nati in una famiglia cristiana. I cristiani, afferma un documento biblico classico dei primi secoli, «sono assidui all’insegnamento degli apostoli, vivono nella fraternità, partecipano insieme alla Cena del Signore. Mettono in comune ciò che possiedono e sono ben visti dalla gente» (Atti degli apostoli 2,42-47).
I cristiani sono coloro che credono che Gesù è risorto e vive per sempre, che ha vinto il male e la morte (Atti 3,15). Ed è in Gesù che la comunità cristiana trova la sua identità e la sua forza. Gesù è al centro della nostra fede. Sin dall’inizio migliaia di donne e di uomini hanno dato la vita per lui. Anche oggi milioni di persone si mettono al suo seguito. Non sono tantissimi - anche se ci sono – i giovani che oggi sono disposti a giocarsi tutto per Gesù. La maggior parte rivela incertezze e confusioni su di lui. Eppure le cronache ci raccontano di giovani che dopo aver partecipato ai campi di Taizé o alle Giornate Mondiali della Gioventù, si manifestano entusiasti. In ogni caso, mentre nei confronti della chiesa o della propria parrocchia si sente a volte stanchezza e addirittura un certo rifiuto, per Gesù la simpatia tra i giovani è alta. L’unico problema è riuscire a parlarne in un certo modo. Perché in Gesù tutto sembra essere scontato e già conosciuto, soprattutto, dopo gli anni del catechismo. Il giovane sta vivendo un periodo della vita in cui mette in discussione tutto ciò che sa e che ha ricevuto. Sente il bisogno di passare ogni cosa al setaccio, perché diventi qualcosa di suo in modo nuovo, libero e personale, oppure per rifiutarlo e fare altre scelte. Avviene così anche per la fede, che finora ha accettato e vissuto senza troppi problemi, ma che adesso mette in discussione perché «ricevuta da altri». Gesù non ha scritto personalmente nulla. Tutto ciò che sappiamo su di lui ci viene dai testimoni che l’hanno accompagnato nella sua vita pubblica, dal battesimo di Giovanni in poi. Questi testi scritti sono apparsi solo molto lentamente: venti, trenta o quaranta anni dopo la morte di Gesù. A quell’epoca il principale mezzo di comunicazione era la parola; infatti la maggioranza delle persone non sapeva né leggere, né scrivere. A mano a mano che le comunità si moltiplicavano, si ponevano nuovi problemi ai quali bisognava rispondere. Allora uomini autorevoli come Paolo, Pietro, Giacomo e altri, indirizzarono delle lettere alle varie comunità cristiane (di Efeso, Corinto, Roma, Filippi, Tessalonica, ecc.). Sono queste lettere gli scritti più antichi che possediamo. Il fatto che nella Bibbia siamo messe sempre al fondo, dopo i Vangeli, possono far pensare che siano state scritte dopo, ma per la maggiore parte di esse è vero il contrario. «I Vangeli, che riportano più sistematicamente le parole e le azioni di Gesù, sono stati redatti più tardi, per rispondere ai bisogni della seconda generazione cristiana (verso gli anni 70/80): i primi testimoni, quelli che avevano visto Gesù, stavano scomparendo. Occorreva quindi mettere per scritto quello che dicevano di lui per garantire la solidità degli insegnamenti ricevuti». È evidente che noi per parlare di Gesù ci rifacciamo a questi documenti: si tratta dei 27 libri del Nuovo Testamento, soprattutto dei quattro Vangeli. Sono questi che raccolgono i ricordi vivi di quelli che hanno frequentato Gesù più da vicino e meglio lo hanno conosciuto. Svetonio (75-150 d.C.) nella sua «Vita dei dodici Cesari», Tacito (55-120 d.C.) nei suoi «Annali», Plinio il Giovane (62-114 d.C.) in un carteggio con l’imperatore Traiano, Giuseppe Flavio (37-95 d.C.) nelle sue «Antichità Giudaiche», sono alcuni degli autori non cristiani che parlarono di Gesù e dei cristiani. Gli scrittori romani scrissero soprattutto per dire che le comunità che si rifacevano a Cristo creavano dei problemi sociali o venivano accusate di fare riti strani.
di don Salvatore Rinaldi
Articolo di lunedì 1 Novembre 2021
Rubrica "Fede e Società"
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