Vivere il presente

A volte siamo ospiti perfetti per un’invitata che ci ruzzola addosso inopportunamente. Invadente, si insedia in noi spudoratamente; pretenziosa, anticipa il futuro (cupo, necessariamente); intrusiva, investe i nostri organi; menzognera, si fa chiamare «stress» per farci credere che arriva dall’esterno. L’angoscia viene a schiacciarci, a demoralizzarci, a farci sentire la morte… Quando giunge, pronta a impossessarsi di noi, ha come compito di allertarci sul vuoto di cui non avevamo coscienza. Il nostro dovere è dunque quello di affrontarla, senza indugiare troppo: essa si nutre infatti dei nostri dubbi; occupa ancor meglio il terreno quanto più abbiamo la sensazione di essere «svuotati».

Tuttavia, vivere non significa lasciarsi intorpidire dall’angoscia. Rifiutando questo stato di assedio, teniamo approssimativamente in mano il volante della nostra esistenza… Significa rifiutarsi di essere affascinati dal proprio passato (felice o infelice) o presi dal panico per il futuro. Significa entrare nella propria vita, senza la vana eccitazione legata all’impressione di essere sempre a corto di tempo, senza la sterile inibizione prodotta dai dubbi, dai rimpianti, dalle paure o dal senso di colpa. Ciò presuppone di prendersi in carico, di non mettersi in disparte, per sentire il flusso dell’esistenza, cioè conservare la coscienza dell’altro. Nei periodi di dubbio e di sofferenza, si può essere tentati di appoggiarsi, per un tempo più o meno lungo, a delle stampelle che assumeranno forme diverse, siano esse incoraggiate o meno dalla società, lecite o proibite, riservate ad alcuni o offerte a tutti. I nostri sostegni non sono mai stati tanto numerosi quanto oggi, in cui ci si proclama liberi nei propri atti e nelle proprie scelte. La lista assomiglia a un inventario alla Prévert, in cui si affiancano il massimo del banale e del nocivo, del comune o dell’intimo. Dipendenze da una passione, un oggetto, una pratica, un’astrazione, una sostanza: in esse troviamo ciò che colmerà il nostro vuoto. Hanno tutte uno scopo simile: sloggiarci dalle emozioni e dai pensieri che ci tormentano. Portandoci fuori da noi stessi ed eccitandoci, queste dipendenze ci procurano la sensazione di vivere. Pierre Lembeye, psichiatra e psicanalista, s’interroga: «Si deve pensare alla dipendenza come a un fattore primordiale. Noi tutti siamo fanatici di qualcosa, sia essa un vizio, un difetto, una debolezza oppure l’espressione di un bisogno profondo, un’esigenza di trascendenza, una voglia di uscire da sé». Come mantenere, malgrado tutto, una certa responsabilità a bordo? In materia, è solamente una questione di dosaggio… Il sostegno, quello vero, inizia quando è la pratica (la chirurgia estetica a oltranza, l’abuso di coach), l’oggetto (la televisione, internet, la bottiglia di whisky) o la credenza a guidare la vita dell’individuo. Assoggettato a quella passione, ne diventa schiavo e perde così la libertà dei suoi comportamenti, dei suoi pensieri e del suo divenire. Tanto che alcune stampelle si rivelano dei temibili falsi amici. Così, l’alcool dissipa l’angoscia, ma risveglia altre sensazioni per nulla più piacevoli, come l’assurdo, la vita sprecata o la morte. Allo stesso modo, gli antidepressivi e gli ansiolitici, che presumiamo ci rimettano in forma in occasione di una crisi, diventano i compagni di un’intera vita.

 

 

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