Dio vede

Nel Sal 139 lo sguardo di Dio è stupendo e pieno di saggezza e può spingersi nei pensieri, nelle ossa, nelle viscere del credente. «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie» (139,1-3). Nel libro di Giobbe è ancora il faccia a faccia, come nel salmo, ma qui lo sguardo di Dio è sentito come un peso e una crudeltà: «Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva?» (7,19). 

Dio, però, rivolge il suo sguardo non solo verso il cuore  dell’uomo, ma anche verso la città, la comunità umana. Dio verso di noi alterna le parole eloquenti e silenzi pieni di suggestioni. Dio parla, infatti, per raccontare le mirabilia che ha operato nei nostri riguardi e con tale intensa efficacia che la sua Parola è essa stessa un “fare”, un “operare”: è Parola che crea e salva. Ma attraverso le stesse mirabilia Dio “parla”, dice l’amore che riserva sugli uomini. Dio opera con le parole e parla con le opere. Ma spesso tace. E il suo silenzio inquieta l’uomo oppure lo spinge ad adorare ancora di più il mistero che si sottrae  alla sua presa. È soprattutto a quel punto che diventa inevitabile un travaso di tutta l’esuberanza espressiva in un muto «guardare». Lo sguardo divino sull’uomo diventa la concentrata sintesi delle sue molte parole e delle sue molte iniziative a nostro favore e anche dei suoi misteriosi silenzi. E non è improprio pensare che il nostro «stare di fronte» a lui obbedisce allo stesso stile. Gli parliamo, cerchiamo di far diventare vita le molte parole che gli abbiamo rivolto. Ma avviene anche per noi che, talvolta, ci lasciamo prendere dallo stupore per quello che abbiamo ascoltato e ci limitiamo a concentrare sul Bambino di Betlemme o sull’uomo del Golgota il nostro sguardo rapito. «Dio vede». A volte abbiamo una interpretazione molto condizionata dalla visione di Dio che abbiamo raggiunto. Ci può essere il dio soprammobile, come le suppellettili che si tengono in casa perché ereditate e che sempre hanno fatto parte dell’arredo familiare. È un dio dalla fragile presenza, che non incide sulle scelte della vita, né nel bene né nel male. Un dio di contorno che non fa problema, quasi indifferente alla vita umana. C’è il dio idolo: «Pagano un orefice perché faccia un dio che poi venerano e adorano. Lo sollevano sulle spalle e lo portano; poi lo ripongono sulla sua base e sta fermo, non si muove più dal suo posto. Ognuno lo invoca ma non risponde; non libera nessuno dalla sua angoscia» (Is 46,1-13). C’è il dio tappabuchi: si ricorre a lui quando si è nei guai e si pensa di non farcela da soli. C’è il dio giustificatore, al quale ci si appoggia per rendere più forte la propria posizione e per affermare la propria ragione senza diritto di replica [Dio con noi]. C’è il dio giudice: un dio temuto più che amato, che ci aspetta al varco per metterci alla prova e trovarci in errore. Abbiamo il Salmo 36,25 che già recita: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane». Nella Lettera a Diogneto, infatti Dio, Signore e Creatore dell’universo, colui che ha dato origine ad ogni cosa e tutto ha disposto secondo un ordine, non solo ama gli uomini, ma è anche longanime. Ed egli fu sempre così, lo è ancora e lo sarà: amorevole, buono, tollerante, fedele; lui solo è davvero buono. Concludo con le parole del profeta Isaia: il Dio cristiano è Padre, ha cura dei suoi figli e non li abbandona definitivamente nella prova. La cura di Dio Padre è simile a quella di una madre: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Il questa visione la Provvidenza si umanizza, perde la sua veste quasi magica e accompagna la persona nella buona e nella cattiva sorte.

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