Dio vuole figli felici

La grandezza dell’amore ricevuto non solo consente al soggetto di constatare l’inadeguatezza e povertà della sua risposta, ma di farlo senza deprimersi, perché è sicuro di quell’amore, come roccia che gli dà forza e stabilità, come abbraccio che lo avvolge teneramente, come sicurezza di potersi fidare, dell’Altro e degli altri.

Anzi, più scopre il proprio male, più sperimenta su di sé l’amore di misericordia, e con questa stessa misericordia guarda a se medesimo: se la perfezione esclude la coscienza del peccato, il cristiano si sente invece profondamente peccatore; se chi si chiude nel proprio mondo e si sente artefice delle proprie conquiste si espone anche alla delusione e alla colpa di scoprirsi poi incapace, chi invece si sa debole e impotente s’apre alla potenza della grazia e fa del suo nulla il luogo della presenza di un amore senza limiti, cui abbandonarsi serenamente. S. Tommaso D’Aquino diceva: «Alla perfezione del bene morale appartiene che l’uomo sia mosso al bene non solo secondo la volontà, ma anche secondo l’appetito sensitivo» (T. D’Aquino, Summa Theologiae I-II, q, 24, III).

Occorre dunque educare, nella formazione iniziale e permanente, alla felicità, alla felicità evangelica, scandita sui registi delle beatitudini, come uno stato di contentezza: Dio non vuole soldatini obbedienti, ma figli felici! (P.G. Cabra, Si può essere felici con Dio? Alla ricerca della gioia, Queriniana, Brescia 2011).

Dobbiamo capire che, se non formiamo persone in grado di godere delle loro scelte o di ciò che Dio può divenire per loro, in grado di amare quel che fanno e goderne, la formazione è debole e costruita sulla sabbia. Vuol dire che il processo formativo non è riuscito a toccare la zona profonda della sensibilità, cioè è servito a poco. Se non convertiamo i gusti e non evangelizziamo i desideri, infatti, la perseveranza è a rischio.

Il cristiano è uno che gode, dunque, ma non necessariamente d’una gioia plateale e chiassosa, obbligatoria o d’ordinanza, tanto meno come oca giuliva o per temperamento, ma perché ha imparato a cercare la felicità ove essa si fa trovare, e soprattutto perché ha convertito ed evangelizzato i vecchi suoi criteri o misteri gaudiosi, ovvero ha scoperto come effimera e passeggera la gioia d’un tempo, e ha cercato e trovato un fondamento nuovo su cui costruire una felicità più sicura e stabile, imparando a godere di esso. Insomma, la gioia è ambito e frutto di formazione o, per essere più precisi, quella sensibilità che tutti abbiamo, e che ci fa godere e soffrire, potrebbe e dovrebbe essere verificata-purificata costantemente nella vita, per divenire una sensibilità che ha appreso il gusto delle beatitudini o il palato del vangelo, facendoci godere sempre più da uomini e donne spirituali.

È importante dire che ognuno è responsabile della formazione della propria sensibilità gioiosa. In questo non esistono doni o qualità innate. E sempre per questo, se è vero che ognuno ha la sensibilità che si merita, allora il motivo della propria gioia, o ciò che è capace di accenderla dice la qualità psicologica e il grado di maturità spirituale della persona.

Francesco che abbraccia, e bacia il lebbroso, superando la naturale ritrosia con un’attrazione che è certo dono dall’alto e assieme, però, anche frutto di un cammino di conversione-formazione della propria sensibilità. È da notare che Francesco non abbraccia quel lebbroso facendosi virtuosamente violenza, magari chiudendo gli occhi per il ribrezzo, o solo perché glielo comanda il vangelo, ma perché il suo cuore ha imparato a trovare piacevole il dare affetto a chi è rifiutato o tentato di non sentirsi amabile. Siamo di fronte a un’attrazione, non a uno sforzo o al politically correct. Qui c’è una vissuto mistico, non solo ascetico che porta Francesco (F. D’Assisi, Testamento di San Francesco, in Fonti Francescane, editio minor, Assisi 1986,66).

Completamente diverso, come gesto ascetico non accompagnato da una conversione della sensibilità, è l’episodio raccontato da Dostoevskij ne I fratelli Karamazov, a proposito di Giovanni il Misericordioso, in fama di santità, cui «si presentò un uomo affamato e pieno di freddo che lo pregò di farlo riscaldare. Giovanni si mise nel letto insieme con lui, lo abbracciò, e cominciò a soffiargli il fiato caldo nella bocca, che era marcia e puzzolente per via di un male orribile. “Io sono convinto – afferma Ivan – che lo fece con gran pena, col tormento di dover mentire, perché il dovere gli ordinava di amare e perché si era imposto una penitenza» (F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Mondadori, Milano 1998, 316).

 

In tal caso c’è indubbiamente un atto virtuoso e persino eroico, tanto più costoso in quanto non c’è all’origine alcuna attrazione. Ma Giovanni mostra di fare tal gesto «perché il dovere gli ordinava di amare e perché si era imposto una penitenza». Lo fa «con gran pena», infatti, senz’alcuna gioia, o addirittura «con tormento di dover mentire», poiché avverte il contrasto tra gesto (caritatevole) e sentimento (di ripulsione). Per questo  il suo atto è altamente meritorio, senza dubbio, ma è solo rinuncia, non supportato da un cambio di attrazione; è più ascetico che mistico, dunque anche debole in prospettiva e con basso indice di perseveranza; più nella linea della perfezione (triste) che non della santità (gioiosa).

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