«Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse... »

È rassegnato il nostro sguardo "adulto" verso i giovani; tanto più riguardo la "fede" dei giovani di oggi. Dobbiamo essere onesti: dal punto di vista ecclesiale e pastorale non solo spesso e volentieri li guardiamo (seppur con nostalgia) come un mondo ormai un po’ "perso" e irraggiungibile da noi (o - quanto meno - lontano da nostro modo di intendere e di vivere la fede), ma facciamo proprio fatica ad avere uno sguardo generativo, che sappia cogliere i segni della presenza di Dio dentro la storia e la vita dei giovani del nostro tempo. 

Affrettatamente, infatti giudichiamo i giovani e la loro fede come alquanto distanti dalla Chiesa, dal Vangelo, financo da Dio stesso... giudicandoli con categorie un po’ vecchiotte, adatte a un mondo di 50 anni fa... mondo che - volente o nolente - non c'è più.

Occorre ascoltare. Occorre lasciar parlare. Non dobbiamo presumere di aver già compreso o di aver già facili ricette in tasca per programmare i "cammini". Solo dopo un ascolto attento e paziente possono scaturire sguardi e parole di vita che educano. Solo "allora" si può procedere. Insomma, quell'allora del vangelo di Marco dice di un movimento del cuore, della mente, della vita tutta di Gesù che, incontrando la realtà di quel tale, legge il suo cammino, la sua fede in un preciso modo: non come occasione di diagnosi spietata che blocca un cammino, ma come possibilità di promessa futura che apre a un possibile futuro.

E per educare un cammino occorre avere qualche idea dello spazio e del tempo che i giovani di oggi stanno abitando e della loro relazione con la "fede": solo conoscendo, cioè, la situazione del modo di vivere la fede dei giovani che abbiamo di fronte, è possibile poi immaginare un cammino adatto e percorribile.

Il messaggio della misericordia di Dio - probabilmente anche grazie alla modalità e all'insistenza di papa Francesco - appare acquisito; magari, a volte, giocato a proprio favore in maniera un po’ utilitaristica, per giustificare (tutte) le scelte individuali anche di comodo («Tanto Dio mi perdona...») ma - nella stragrande maggioranza- avvertito e riletto nella sua potenza di amore accogliente e misericordioso: «La cosa più bella di credere in Dio è sapere di avere una grande opportunità, di avere un Padre misericordioso, sempre pronto ad accoglierti». «Anche se sbagliamo, c'è un Dio che comunque ci vuole bene, ci perdona. C'è di buono che c'è sempre un Padre che, comunque tu sia fatto e comunque tu ti comporti, sai che non ti dirà mai di no, non ti volgerà mai le spalle».

 

Non è forse questo il cuore del Vangelo? E sapere di essere guardati così è identificato facilmente come il "valore aggiunto" della fede, come mostra quanto questi giovani identificano con il «che cosa c'è di bello nel credere in Dio» (era una delle domande poste). Nonostante tante difficoltà e dubbi, infatti, chiaramente «il termine "speranza" è stato uno di quelli più frequentemente utilizzati per indicare la bellezza del credere», perché la fede è capace di aiutare «nel non sentirsi mai soli», perché la fede è quel «di più», quella «luce di un faro» che permette di «passare da una vita "in bianco e nero" a una vita "a colori"». Come a dire: magari poi, quel giorno, quel mese o quell'anno... non Lo seguirò; ma so che quello è uno sguardo e un incontro di misericordia a cui si può (sempre) ritornare.

 

Art. don Salvatore Rinaldi

Lunedì 22 Gennaio 2024

 

Rubrica "Fede e Società"

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