I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano una lingua particolare, (...) ma testimoniano uno stile di vita mirabile e, a detta di tutti, paradossale. (...) Risiedono nella loro patria ma come stranieri domiciliati (pároikoi); a tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri (xénoi); ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera.
Decodificando questo brano, si può affermare che i cristiani non pretendono di reggere e guidare da soli la società, sono lontani da ogni logica di imposizione delle loro convinzioni; nello stesso tempo, per loro non c'è nessuna evasione dalla storia, dall'impegno di costruire la pólis insieme agli altri concittadini. Il Nuovo Testamento ci testimonia che il cristianesimo si è dilatato di città in città per tre secoli attraverso l'impero romano, subendo persecuzioni cruente e inimicizie: mai però i cristiani hanno disertato (cfr. Lettera a Diogneto VI, 10) e sono fuggiti. Anzi, anche quando si vedevano costretti a definire la città persecutrice di Roma come Babilonia (cfr. Ap 14,8; 16,19 ecc.), continuavano ad abitare la città e a rivolgerle la buona notizia del Vangelo. Fedeli alla terra, i cristiani sono fedeli alla città anche quando essa è loro nemica; sono pienamente solidali con gli uomini in mezzo ai quali vivono; sono sempre impegnati nel cammino di umanizzazione che riguarda tutti. È la vocazione cristiana che richiede ai cristiani la capacità di essere profeti per la città, inviati alla città per portarle il Vangelo, per recarle l'annuncio della pace, per servire l'umanità.
Anche a noi, Uomo di Nazareth, chiedi di partecipare alla stessa avventura e di offrire a coloro che incontriamo la possibilità di vivere un'esistenza nuova, rigenerata dal tuo amore.
Ma noi cristiani siamo capaci di vivere questa missione? Sappiamo mostrare la “differenza cristiana” tra gli uomini? Sappiamo costruire la città insieme agli altri, senza per questo abdicare alla fede e alle istanze evangeliche che li abitano? E con quale stile, con quali sentimenti noi cristiani abitiamo la città e viviamo in essa da discepoli di Gesù Cristo? Queste sono domande pressanti, urgenti. Viviamo in una società e in città segnate dalla differenza, dall'alterità, dalla pluralità. Basta percorrere una strada o salire sulla metropolitana: convivono a stretto contatto uomini e donne del Sud del Mediterraneo, dell'Africa, dell'Est Europeo, dell'Estremo Oriente e delle Americhe. È una novità degli ultimi decenni: quegli stranieri che chiamavamo "infedeli" sono accanto a noi, lavorano con noi, vivono e pregano diversamente in mezzo a noi. Di fronte a questa nuova situazione è anche legittimo provare paura, perché la diversità sconosciuta provoca paura. E la paura non va rimossa o negata, bensì razionalizzata; non va strumentalizzata per fini politici ma va letta e compresa, per poterla assumere e trascendere. Senza dimenticare che in ogni persona c'è un aspetto di bisogno: a volte economico (povertà), a volte sociale (i senza voce, gli ultimi, coloro che non sono ascoltati), a volte esistenziale (soli, vecchi, emarginati, malati, abbandonati). La città ci ospita tutti: coloro che sono bisognosi in modo più visibile desiderano potersi fidare di noi, attendono che mettiamo fiducia in loro, che li difendiamo, che li guardiamo in faccia dicendo loro semplicemente: «coraggio, voglio stare vicino a te». La città è vicinanza, prossimità tra gli uomini e le donne, è l'occasione più propizia per amare il prossimo, ovvero chi ci è vicino o, meglio, chi rendiamo vicino (cfr. Lc 10,36).
Ecco che cosa attende la città da noi cristiani. Attende che usciamo da noi stessi, dal nostro narcisismo, dal nostro individualismo, e ci impegniamo a tracciare orizzonti di convergenza politica, economica ed etica con gli altri.
Articolo di lunedì 29 gennaio 2024
Rubrica "Fede e Societa"
a cura di don Salvatore Rinaldi
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